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Ma quale autonomia: ecco i veri numeri del “residuo fiscale”

by Filippo Burla
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Roma, 14 feb – Approderanno oggi in Consiglio dei ministri le prime bozza dei testi in merito all’autonomia rafforzata per le regioni di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. La proposta arriva ad un anno e mezzo dal referendum con il quale le prime due avevano richiesto “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, mentre la terza aveva scelto di non passare dal voto popolare. Il primo nodo della partita ruota attorno alle competenze che verranno trasferite dallo Stato alle regioni. I nodi sono ancora da sciogliere nei dettagli, specialmente per quanto riguarda le infrastrutture (in particolare i trasporti), l’energia e alcuni dettagli relativi alla sanità, che di fatto è già regionalizzata da anni.

Il secondo e più importante punto è però quello di natura strettamente finanziaria. Obiettivo da sempre dichiarato delle regioni è infatti di trattenere sul territorio una parte dei tributi che i residenti pagano all’erario. Il ragionamento che viene condotto da anni a questa parte si snoda infatti sul cosiddetto “residuo fiscale“. Si tratta della differenza tra le entrate tributarie dello Stato e quanto da quest’ultimo viene trasferito ai contribuenti del sotto forma di beni e servizi. In estrema sintesi, parliamo del divario fra tasse pagate e spesa pubblica “ricevuta”. Un divario che le regioni che chiedono più autonomia vorrebbero colmare trattenendo queste risorse sui propri territori, laddove vengono prodotte.

Quanto ci guadagnano le regioni del nord?

Ma è proprio così? I dati, ad una prima analisi, sembrano impietosi. E decisamente sfavorevoli al nord. Le stime variano, ma si può parlare di un residuo fiscale che per la Lombardia ammonta a oltre 40 miliardi, che diventano 12 per il Veneto e quasi altrettanti per l’Emilia-Romagna. Un discreto gruzzolo che fa gola ai governatori. Ma che, allo stesso tempo, volutamente o meno non considera la spesa pubblica nella sua interezza. Escludendo ad esempio la spesa per interessi sul debito, che di quest’ultima è componente particolarmente rilevante almeno dal punto di vista quantitativo. Eppure si tratta a tutti gli effetti di una spesa pubblica che, laddove il titolo del debito sia detenuto da un residente vuoi in Lombardia, vuoi in Veneto o in Emilia, va, sia pur indirettamente, a ritornare su quel territorio.

Ebbene, considerando dunque la quota di interessi sui Titoli di Stati pagati ai residenti in queste regioni il residuo fiscale – che a questo punto prende il nome di residuo fiscale finanziario – cala sensibilmente. Diventando 13 miliardi per la Lombardia, 2 miliardi per il veneto e meno di 2 per l’Emilia-Romagna. Somme ancora importanti, ma non certo in grado di fare la differenza quando l’autonomia sarà completata. Con il rischio che, con la scusa di chiedere di trattenere maggiori risorse, l’effetto possa essere in realtà di aumentare i trasferimenti dal centro alla periferia. Proprio quello che le regioni “ribelli” contestano al meridione.

Filippo Burla

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Guido Rossi 1 Gennaio 2020 - 11:06

Il calcolo con sottrazione degli interessi su titoli pubblici mi sembra totalmente scorretto: i cittadini possono scegliere dove investire i propri risparmi, anche non in titoli pubblici italiani. Non possono affatto, invece, scegliere di non pagare le imposte

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