Roma, 13 feb – Dicono che l’abito non faccia il monaco o, come insegna Plutarco, la barba il filosofo. Ma spesso il popolo delle grandi contrapposizioni – quello italiano, ça va sans dire – incolla frettolosamente delle etichette difficilmente eliminabili. Soprattutto quando si parla di calcio. Ce lo dimostra in particolar modo la vulcanica parabola pallonara di Alberto Malesani.
Veronese doc, a differenza di tanti (ex) colleghi, non vanta in gioventù un curriculum da giocatore. Lavora infatti per la Canon, che sovente lo impegna all’estero. Particolarmente formative – anche in ambito pedatorio – sono le trasferte di lavoro ad Amsterdam dove osserva a 360 gradi il modello Ajax. Il 1987 è l’anno del “grande” salto: il Chievo lo scova tra i dilettanti facendolo inizialmente dividere tra campo e scrivania. Tecnico della primavera, allenatore in seconda e infine – dal 1993 al 1997 – la panchina della prima squadra, vincendo al primo colpo la C1.
Malesani, il grande palcoscenico: Fiorentina e Parma
Il divertente gioco espresso dallo spregiudicato 3-4-3 – nonché la semina di quello che diventerà il miracolo clivense – vale l’esperienza in due delle allora sette sorelle. Il suo modo di essere – spontaneo e genuino – abbinato alla professionalità richiesta (“il mio calcio è fatto di 3 ingredienti: ordine, disciplina e idee semplici”) lo fanno rispettare da gente del calibro di Batistuta, Rui Costa (1997/98, a Firenze), Buffon, Cannavaro e Crespo (in quel di Parma, dove nell’anno solare 1999 solleverà 3 coppe). Proprio in Emilia rinnova il modulo, alternando un sempre offensivo 3-5-2 alla soluzione con 4 centrocampisti in linea più il trequartista.
Il “primo” derby di Verona e la retrocessione
Il 2001 segna il ritorno nella sua città. Firma per l’Hellas nell’anno del primo derby veronese nella massima serie. In una domenica sera di metà novembre – con il Chievo che ci arriva da capolista – il precursore della rifinitura mattutina ristabilisce per una notte quello che è l’ordine naturale delle cose: sotto 2-0 la disputa viene completamente ribaltata grazie anche alle reti dei futuri campioni del mondo Oddo e Camoranesi (il terzo in rosa, un giovane Gilardino, entrerà a gara in corso). Al triplice fischio di Trentalange, Malesani si scatena in una pazza corsa sotto la curva Sud che termina con il lancio – a mò di maglietta – del giaccone impermeabile.
La sincera esultanza vale l’etichetta di “allenatore ultras”: se il mondo mediatico – sia progressista che reazionario – ha sempre declinato tale soprannome in maniera negativa (quasi irrisoria) chi scrive lo rilancia invece in chiave vitalistica e profondamente passionale. Nonostante una stagione condotta fino a marzo nella parte sinistra della graduatoria, gli scaligeri incredibilmente retrocedono.
Dalla panchina alla vigna
E’ l’inizio della fine: rimane sulla panchina gialloblù nonostante le grane societarie – pur di restare si decurta lo stipendio – per poi affrontare un’altra decina di alternanti esperienze. Iconici, nel mezzo, due sfoghi a favor di telecamere: quelli in veste di allenatore del Panathinaikos (“lavoro 24 ore al giorno, tutti i giorni” in risposta ai critici giornalisti greci) e Genoa, con il famoso discorso del “demotivato e mollo”.
Ora, nella sua terza vita professionale, gestisce insieme alle due figlie un’azienda vinicola: la Giuva, acronimo di Giulia, Valentina e uva. Rigorosamente in abiti comodi – bermuda o tuta, come ai tempi della panchina – e con la barba leggermente incolta si occupa della vigna, intuizione risalente al 1999 quando in trasferta a Bordeaux visita alcuni chateaux.
In una dimensione – quella calcistica – fin troppo devota all’imprigionante ruolo dell’immagine, questo personaggio estroverso ma “sempre in fase di sperimentazione” è stato rottamato con troppa facilità. Sarà perché dal “i professionisti sono sordi, pensano di sapere tutto” al “bisognerebbe ricorrere alla sapienza degli (allenatori) italiani” passando per il “c’è più attenzione ad entrare nella Champions che a vincere…più tensione a salvarsi che a costruire qualcosa in più” è riuscito ad analizzare tanti difetti ormai endemici del pallone nostrano con estrema precisione. D’altronde, si sa, l’essere profeti in patria è impresa assai ardua: essa dona la vita, ma raramente conferisce onori.
Marco Battistini
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