Roma, 13 mag – Dopo vent’anni dal drammatico derby di Champions di semifinale e dopo diciotto da quello ai quarti celebre per le torce interiste a Dida (entrambi a favore del Milan), Milano torna a ospitare una stracittadina europea con in palio un posto in finale ad Istanbul. Non vivo più a Milano da otto anni e in questo periodo, dopo quasi quarant’anni di stadio, la mia frequentazione di San Siro è diventata sempre più sporadica, non tanto per la distanza ma proprio perché il calcio negli ultimi anni è cambiato così tanto che faccio sempre più fatica a riconoscermi. Ma va da sé che un evento del genere non possa lasciarmi indifferente: il Milan nella mia vita non ha significato solo una fede, ma anche un’eredità famigliare che arriva da mio padre ed un sistema di contatti ed amicizie che sono rimaste intatte negli anni, anche se magari ci si vede solo saltuariamente. Il derby di Milano significa Casciavit contro Bauscia: i milanisti della classe operaia contro gli interisti della borghesia. Ovviamente queste distinzioni ora non hanno più alcun senso, ma contribuiscono ad aumentare la mitologia della sfida. Milano poi, a differenza di Roma e Genova, non ha mai avuto quartieri nettamente dell’una o dell’altra compagine e ciò ha fatto sì che le distinzioni di ceto e di modo di vivere siano del tutto sparite tra le due componenti.
Una questione tribale
Arrivo a Milano nella mattinata di mercoledì in una città sommersa dalla pioggia delle ultime dodici ore (altro che la siccità dei gretini…), ma appena scendo dal pullman la pioggia cessa per lasciare il campo ad un cielo di piombo (tanto per citare gli A.D.L. 122) che accompagnerà tutta la giornata. Tappa in Porta Romana per Guinness e Club Sandwich nel mio vecchio local pub, scambiare due chiacchiere con due tedeschi e tre irlandesi scesi per il match e poi via in metro verso lo stadio. Adesso la metropolitana arriva direttamente sotto l’impianto, ma io sono della vecchia scuola e quindi scendo alla fermata di Lotto, quella collocata a diverse centinaia di metri da San Siro che tra gli anni ’80 e ’90 era la classica uscita dei cortei delle tifoserie ospiti. E ancora lo posso sentire l’odore di fumogeni e lacrimogeni che quel luogo emana nitidamente. Altra particolarità del quartiere di San Siro, per chi non ne avesse dimestichezza, è che da Lotto fino allo stadio è tutto un susseguirsi di grandi ville inaccessibili persino alla vista a causa delle alte cancellate, mentre oltre lo stadio si estende una vera e propria casba: persino alle quattro del pomeriggio l’unico bianco in strada sono io. Intere famiglie musulmane occupano tutte le case ed in strada, tra murales in arabo dedicati alla Palestina, loschi gruppi di giovani ciondolano per le vie con fare sospetto.
Terminato questo excursus sociale torno a pensare al motivo per il quale sono lì e la tensione inizia a salire alle stelle. Molti dei miei più cari amici, gente con la quale ho praticamente diviso qualsiasi momento della mia esistenza, sono interisti, ma oggi è ognuno per sé e Dio per tutti. Nessuno chiama nessuno, nemmeno per bersi una birra veloce, per quello ci sarà tempo nel resto delle nostre esistenze: oggi ognuno resta con la proprio tribù, perché il calcio è proprio questo, una questione tribale e proprio ciò ne ha decretato il successo planetario, anche se i soloni che pontificano in tv vaneggiano di stadi nei quali tifosi di opposte fazioni assistono alla partita insieme e si congratulano o consolano a vicenda. Grazie a Dio la realtà è altra cosa e lasciatecela godere ancora un po’, prima che ci venga vietato pure questo piacere.
Luci a San Siro, di nuovo
Sembra retorica ma ogni volta che torno a San Siro sembra che non me ne sia mai andato: è tutto uno stringere mani, un brindare alla nostra salute, al nostro Milan e raccontarci un po’ delle nostre vite. Arrivano gli amici di sempre, c’è chi ritorna da Londra o Madrid perché il richiamo è troppo forte, c’è chi inizia ad accendere torce, c’è chi ha portato un Merlot fatto in casa, chi arriva dall’ufficio in camicia e ci mette prontamente sopra una maglia della Curva, chi non veniva da quindici anni ma oggi ci vuole essere e va beh comprerà un regalo del Milan per la figlia, chi non regge più l’emozione e chi invece ostenta un palesemente falso distacco. Ed allora per qualche ora veramente ti dimentichi di tutto il resto del mondo perché sei con tuo papà e i tuoi amici a ridere e scherzare in attesa che il Diavolo ed il Biscione facciano il loro. Nell’aria partono i primi cori e lo sai che sotto la Nord gli interisti staranno compiendo lo stesso rito; ognuno ha le proprie scaramanzie perché pure se non ci credi le metti in pratica comunque. Le luci a San Siro sono tutte accese ormai e, anche se non c’è la nebbia cantata da Roberto Vecchioni, percepisci la stessa emozione narrata in quella canzone. Ora il tempo si sta per fermare e solo quel pallone in campo avrà senso, solo quel pallone in campo sarà l’orologio che scandirà la gloria o la sconfitta. E pensare che forse tra qualche anno questo meraviglioso stadio non esisterà più e allora veramente Luci a San Siro non ne accenderanno più.
P.s.: sì lo so, il Milan ha perso e pure in malo modo, ma se mi chiedete se ne sia valsa la pena vi risponderei come Tommy Johnson nel film The Football Factory: course it ****ing was!
Roberto Johnny Bresso