Roma, 19 gen – In un articolo datato 1918 e pubblicato sulle pagine dell’Avanti! Antonio Gramsci riflette sul calcio, pratica sportiva che da qualche tempo ha iniziato ad appassionare l’Italia. Ma nel suo Il football e lo scopone il pensatore sardo prende almeno due topiche clamorose. La prima definendo, con scarsissima lungimiranza, gli italiani come un popolo poco amante dello sport. La seconda indicando proprio nel football un modello di società individualistica. Nulla di più sbagliato insomma. In tal senso a vederci maggiormente in profondità fu l’ex direttore dello stesso giornale organo del Psi. Una volta al governo infatti, Benito Mussolini intuisce ben presto che il rinnovamento antropologico, per il quale tanto il fascismo si spese, non poteva prescindere da organizzate politiche sportive. Il calcio si rivela in tal senso veicolo perfetto e feconda pratica sociale. Da ottimo anticipatore dell’avvenire, lo statista romagnolo attribuisce quindi rilevante importanza alla questione. Calcio e camicia nera, l’Italia si appresta a diventare la prima “nazione sportiva” del Vecchio Continente, il pallone di cuoio la sua punta di diamante.
La solida istituzione della Serie A
Ottimo specchio della società già dai suoi albori, proprio nell’ottobre 1922 il calcio italiano ritrova una certa stabilità. Dopo le divisioni della stagione 1921/22 – quando sostanzialmente vennero organizzati due campionati diversi – ecco la Prima Divisione. Ossia un unico torneo, ma ancora organizzato su base regionale. Così mentre il pallone acquista sempre più popolarità, superando addirittura le due ruote del ciclismo, il Duce (non proprio un appassionato in materia) ne carpisce tutto il potenziale.
Il primo, fondamentale, passo è la stesura di un documento – oggi conosciuto come Carta di Viareggio – attraverso il quale riformare un sistema che ormai stava stretto al seguitissimo giuoco. Dal 1926 infatti iniziamo a conoscere le prime forme di professionismo tra i giocatori, viene regolato in maniera meno restrittiva il calciomercato e si opta per un blocco graduale nel tesseramento degli stranieri. Ma soprattutto la Federazione ridisegna su scala nazionale il campionato: a partire dal 1929/30 l’avvento della Serie A – a girone unico – segnerà l’inizio di una delle istituzioni più solide dello sport italiano.
Il calcio e la camicia nera, un imponente piano di edilizia sportiva
Secondo i dati del sito specializzato calcioefinanza.it durante la stagione 2022/23 il mondo del pallone italiano ha avuto un impatto sul Pil pari a 11,3 miliardi euro. Anche in questo caso – stretta connessione della sfera di cuoio con l’economia – le intuizioni del Duce risultano quanto meno antesignane. Intorno alla metà degli anni ‘20 nasce l’esigenza di superare gli ormai insufficienti campi sportivi. Dalle tribune montate su impalcatura la nuova Italia deve giocoforza passare a strutture moderne e capienti. L’importante collaborazione tra entità pubbliche e forze private fa il resto. Dal Littoriale di Bologna (1926, primo impianto moderno) a San Siro, passando – negli anni ‘30 – per il Berta di Firenze, il Foro Mussolini nella capitale e lo stadio di Torino. Manco a dirlo, occupano ancora tutti il loro posto. Dalle grandi città alla provincia: Ancona, Bergamo, Catania, Como, Foggia, Modena, Palermo, Parma, Pisa, Reggio Calabria. Solo per fare alcuni esempi.
Senza dimenticare che, tra quelle sopra elencate, le opere edilizie post 1929 vanno inserite finanche nel contesto depressivo successivo al giovedì nero della borsa di Wall Street. E’ il primo embrione di “industria del calcio”, i nuovi posti di lavoro e la non indifferente sollecitazione del tessuto economico contribuiscono a contrastare (in parte) gli effetti della crisi globale.
Un’unica bandiera
Al contrario di quanto affermato da Gramsci, il calcio – completo sport di squadra – è intrinsecamente comunitario. Nella pratica e nel tifo. Ancora una volta Mussolini arrivò alle giuste conclusioni ben prima degli altri politici. Agendo su due piani – società e nazionale – cerca di circoscrivere il più possibile ogni (inevitabile) campanilismo per unire tutti gli italiani sotto un’unica bandiera. Un processo quest’ultimo che dopo il Risorgimento e la Grande Guerra andava (e va tuttora) continuamente alimentato. Anche grazie alla maglia azzurra. Proprio durante gli anni che Renzo De Felice definisce “del consenso”, la selezione italiana si afferma nel mondo come modello vincente. Senza nulla togliere ai grandi campioni dell’epoca impegnati in attività sicuramente più nobili rispetto all’arte pedatoria (l’imbattibile Alfredo Binda, la montagna camminante Primo Carnera, “l’uomo più veloce” Tazio Nuvolari, la campionessa Ondina Valla), sono i calciatori “in camicia nera” a farsi portatori di un messaggio fortemente identitario.
La nazionale italiana, un modello vincente
Lo sport, per dirla con Orwell, “è una guerra senza gli spari”. E allora ecco che la competizione calcistica per eccellenza – il mondiale – si trasforma in una nuova prova di forza. Tanto più quando il governo fascista si prende l’onere e l’onore di organizzarne la seconda edizione. Fondamentali ai fini dell’assegnazione furono appunto il peso, il volume e la forma che Mussolini stesso volle dare al pallone italiano. Uno sforzo che, da Nord a Sud, richiede l’impegno di tutto la Nazione. Milano, Torino, Genova, Bologna, Trieste, Firenze, Roma e Napoli sono le città scelte per ospitare la competizione iridata. Tempo e fatica ripagati poi dagli uomini di Vittorio Pozzo.
Il commissario tecnico, lavorando sulle gambe e sulla testa dei suoi (motivava i calciatori ricordando loro la battaglia del Piave), porterà per due volte consecutive gli azzurri sul tetto del mondo. Nel mondiale “casalingo” del 1934 e in quello di quattro anni dopo giocato in Francia. In mezzo (Berlino 1936), arrivò anche l’unico oro olimpico del pallone nostrano. Organizzazione, avanguardia strutturale e volontà di potenza. Mussolini e il calcio italiano erano entrati nella storia dello sport.
Marco Battistini