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Cartastràccia, Nino Benvenuti: il ritmo dell’oro olimpico

by Lorenzo Cafarchio
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Nino Benvenuti, pugilato

Cartastràccia, il libraio di Altaforte racconta Nino Benvenuti

Roma, 29 lug – Destro, sinistro, destro. Una nenia che viene da lontano. Colpi mai stanchi, guardia sempre alta. Era un ragazzino di vent’anni, ventidue per la precisione, Giovanni ‘Nino’ Benvenuti quando il 5 settembre 1960, durante le diciassettesime Olimpiadi, abbellì il suo robusto collo di pugile con la medaglia d’oro. Oro nella categoria welter (67,00 kg). Era Roma, quella dell’etiope scalzo Abebe Bikila trionfatore nella maratona, dove l’eterna danza sul quadrato adornava dorata i nostri boxeur. Oltre a Benvenuti il metallo più pregiato fu conquistato anche da Francesco Musso (pesi piuma) e Francesco De Piccoli (pesi massimi). Il pugilato regalò all’Italia, in quell’edizione della rassegna a cinque cerchi, sette medaglie: oltre alle tre d’oro anche tre argenti ed un bronzo.

Nino Benvenuti, figlio d’Istria

Benvenuti, figlio d’Istria, fu instradato sul quadrato dal padre. Appassionato e cultore della nobile arte.

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Proprio a Roma accompagnava il figlio tra gli spalti. Prima della finale, in cui incrociò i guantoni con il pugilatore sovietico Yuri Radonyak, Nino cerca lo sguardo paterno tra le tribune, ma non lo trova. Cattivo presagio? Macché, l’incontro scivola via – verdetto finale 4-1 per il triestino – inesorabile. Il commentatore ricorda come Benvenuti “spiega la boxe ai suoi rivali ricevendoli sul ring col garbo di un compito padrone di casa”.

A Tokyo nessun pugilista italiano

Oggi, sessantuno anni dopo, nessun pugilista uomo italiano calcherà il ring delle Olimpiadi di Tokyo. Le sole Irma Testa – che sabato porterà nella sua Torre Annunziata, la prima medaglia al femminile del pugilato tricolore – Giordana Sorrentino, Rebecca Nicoli e Angela Carini alzano la bandiera sopra il cielo d’Asia. Chissà perché nell’era del rischio zero, la lotta affascina le masse. “Chissà cosa affascina tanto, chissà cosa piace, in un uomo aggrappato alle corde che non vuole cadere”. Così canta Pacifico, nel brano Boxe a Milano, una struggente melodia dedicata all’allenatore meneghino Ottavio Tazzi. Del resto “quante cose si fanno sapendo di farsi del male”. Un elogio della virgulta volontà di non piegarsi al destino. Tazzi, sul finire del videoclip della canzone, lascia lo spazio ai ricordi. Lascia lo spazio ai brocchi. “Mi ricordo un certo Callegari di Voghera, faceva il diavolo a quattro pur di fare il match. Perdeva sempre. E quelle poche volte che ha vinto mi godevo la felicità. Era il massimo”. Callegari, recentemente scomparso nella sua città nell’indifferenza totale, divenne anche professionista combattendo in ogni angolo del mondo.

Il ritmo del pugilato, l’ardore di una Nazione

Benvenuti è stato, nei suoi scambi, nel suo esempio, nella sua parabola la luce dell’Italia che costruisce, che ritorna sul palcoscenico del mondo, sul promontorio dell’avvenire, sgomitando per un posto al sole. Il viso pulito e sorridente della sua terra. Il ritmo della sua Trieste. “Il ritmo”, del resto, “nel pugilato è tutto. Qualsiasi movimento tu faccia, nasce dal cuore: o questo ha il ritmo giusto, o sei nei guai”, Sugar Ray Robinson. Il cuore balla insieme al fato colpendo gli sprovveduti sulla via della rettitudine. Eppure nella bellezza della lotta è nascosta la ragione ultima dell’esistenza. “La bellezza racchiude tutta la tensione propositiva di una civiltà, aprendola al confronto e allo scontro su un ideale di umanità da realizzare”. Stefano Zecchi, nel volume L’artista armato, dipinge con le lettere la sinuosa immagine che potrebbe essere quella di Nino Benvenuti capace coi suoi pugni di ridestare l’ardore di una Nazione, l’Italia, vittima della morte della Patria all’indomani del 25 aprile 1945. I cazzotti, quelli di Benvenuti, che mettono in moto la verità dell’uomo contro la modernità.

Lorenzo Cafarchio

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1 commento

Evar 30 Luglio 2021 - 11:17

Un vero signore, capace di stare senza problema in parti “scomode”, tipo il suo appoggio al MSI e la sua amicizia con Griffith, gay dichiarato.
Ma non essendo “cattivo”, i suoi pugni non erano irresistibili e appena trovò un Monzon che di cattiveria ne aveva da vendere, chiuse la carriera (e meno male ancora in vita, grazie al suo allenatore…)

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