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Il caso Sydney Sweeney: quando le star smontano le tesi del femminismo

by Marco Battistini
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Roma, 19 nov – Lo chiamano – quelli bravi – empowerment femminile. Sarebbe, in soldoni, un non meglio precisato processo di emancipazione e autodeterminazione delle donne. Lo scopo? Quello di dare più potere al gentil sesso tanto nella vita privata quanto nella società. Termine utilizzato ufficialmente per la prima volta nel contesto della conferenza Onu di Nairobi – siamo nel 1985 – il concetto emerge almeno un decennio prima in seno al femminismo. Dal canto nostro già qualche tempo fa abbiamo dedicato ampio spazio a cosa – nei fatti – si sia trasformato quest’ultimo movimento. Controprova di quanto siano state giuste le nostre intuizioni arriva direttamente dal patinato mondo delle star. Ultima a darci manforte, in ordine cronologico, la bellissima Sydney Sweeney.

Donne che aiutano le donne? Non funziona così…

Intervistata da Vanity Fair l’attrice ha smontato – senza mezzi termini – i presunti rapporti di sorellanza tra donne nel mondo cinematografico. Nei mesi scorsi infatti la statunitense classe ‘97 era stata attaccata da Carol Baum. «Non è bella e non sa recitare. Perché è così ricercata?» le ben poco eleganti parole rilasciate dalla produttrice hollywoodiana a Janet Maslin, critica cinematografica del New York Times.

La ragazza, famosa in tutto il mondo per l’interpretazione di Cassie Howard in Euphoria, ha fatto sapere, tutta piccata: «Fa davvero male vedere alcune donne minare altre donne, specialmente quando si tratta di donne di successo in altri ambiti dell’industria che si mettono contro a colleghe più giovani che stanno lavorando sodo – cercando semplicemente di realizzare i loro sogni – con l’intenzione di colpire e screditare qualsiasi cosa abbiano fatto».

Smascherando quindi questo fantomatico supporto femminile. «In tutta l’industria cinematografica si dice che “women empower other women”. Non è vero, non funziona così. Tutto questo è falso, ed è una facciata per tutto lo schifo che proprio le donne dicono alle spalle di chiunque altro».

Sydney Sweeney e le altre star di Hollywood

Lo sappiamo, nel mondo della provincia profonda il femminismo – tanto negli Usa quanto in Italia – non ha liberato nessuna casalinga di Voghera dall’oppressione-del-patriarcato (qualunque cosa voglia dire). Ha piuttosto agevolato il successo di donne magari già in carriera. Il problema per le nemiche dichiarate dell’uomo – quindi delle stesse donne – è che la loro narrazione è stata picconata più volte anche dalle star al femminile. 

Sydney Sweeney insomma è in buona compagnia. Da Shailene Woodley – «Il motivo per cui non mi piace dire che sono femminista è perché è un’etichetta. Perché dobbiamo avere quell’etichetta? Per dividerci?» – a Kelly Clarkson («quando le persone ascoltano i discorsi delle femministe è come se percepissero solo: levati di mezzo, non ho bisogno di nessuno»). Dal disinteresse di Lana del Rey, decisamente più presa da “cose come SpaceX e Tesla, quanto succederà nel futuro con le nostre possibilità intergalattiche”, alla Demi Moore “grande sostenitrice delle donne, ma non delle femministe”. E che dire di Emily Blunt? Per l’ultima Mary Poppins – ruolo interpretato nel sequel del 2018 – «la cosa peggiore di sempre è quando apri uno script e leggi le parole ‘protagonista femminile forte’. Una cosa che mi fa alzare gli occhi al cielo».

Taglia, infine, la testa al toro Dita Von Teese. Per la famosa ballerina che ha rispolverato il burlesque nel terzo millennio il femminismo moderno altro non sarebbe che il “rovesciamento di idee già antiquate”. Il viola, colore delle femministe, non è mai stato così sbiadito.

Marco Battistini

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