Facebook, Instagram, Twitter, Tumblr: con tutti questi social siamo connessi 24 ore su 24 e virtualmente in contatto con centinaia di persone, eppure mai come oggi la solitudine e l’alienazione si stanno impadronendo della vita di giovani e meno giovani – almeno stando ai risultati di un nuovo studio lanciato da Forbes e Nbt. Secondo le ultime statistiche, infatti, i millennial che si sentono soli sempre o spesso sono il 30%, contro il 20% della generation X (i nati tra gli anni Sessanta e Ottanta), ed il 15% dei baby boomer (i nati tra la metà degli anni Quaranta ed i primi anni Sessanta). Altri dati raccolti da YouGov confermano la tendenza: il numero di millennial che confessano di non avere nessun amico, o almeno un amico intimo o un migliore amico, è rispettivamente al 22%, 27% e 30%. Un fenomeno, questo, in netto aumento rispetto alle passate generazioni. Addirittura il 25% dei millennial sostiene di non avere nemmeno conoscenti…
Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di dicembre 2019
Ed è proprio la ricerca di Forbes a collegare l’aumento della solitudine e la conseguente atomizzazione della società all’utilizzo di internet e dei social network. Sempre citando studi statistici (Royal society of public health), al maggiore utilizzo dei suddetti strumenti corrisponde un incremento del 70% delle nevrosi legate ad ansia e depressione. Lo scollamento tra l’universo virtuale e quello reale diventa sempre più inaccettabile. I citati studi non evocano la superficialità e la vacuità dei social network, non-luoghi fittizi in cui solo la «verità» ritoccata di un selfie o l’idiozia di un meme diventano unico linguaggio condivisibile. Ed è così che le foto di sushi e tartare sostituiscono gli inviti domestici, così come i video in diretta cancellano la mera ipotesi di incontro.
L’altra faccia della medaglia social
Ma quello che più rimproveriamo al web è di aver ridotto e annichilito la nostra capacità espressiva, il riserbo, e perché no, l’etichetta, ovvero quella serie di regole e codici che permetteva a noi europei di vivere in società, di interagire con buonsenso, pudore, delicatezza. Lo scollamento tra il «dire» su Internet e il «fare» nel reale ci dovrebbe dare la misura della corruzione dei costumi moderni. Chi si presenterebbe ad un primo appuntamento galante con il classico impermeabile dell’esibizionista per mostrare le sue parti intime? Nella realtà crediamo nessuno o pochi marginali schizoidi, ma in una chat privata quanti episodi simili si verificano?
Solitudine, ansia, depressione, in molti casi sono espressioni di un egoismo che potrebbe essere curato o alleviato con il dono di sé, la condivisione, una casa aperta ad ospiti e amici al posto di un profilo Facebook «aperto», il cameratismo e il senso di fratellanza di cui tanto si parla ma meno spesso si vive nel quotidiano; il viaggio come veicolo per approfondire la conoscenza di luoghi e persone, così come ci esortava Dominique Venner, lasciando da parte almeno per un po’ quel mondo tossico fatto di like e auto compiacimento (o commiserazione). Scopriremo che non abbiamo poi bisogno delle story per sentire, osservare, vivere. I veri incontri, gli scambi, i dialoghi costruiscono legami inscindibili che ci permetteranno di essere parte di un tutto, di quella comunità ideale a cui tanto aspiriamo, e allora sì potremo influenzare gli altri e spingerli un po’ più in alto.
Chiara Del Fiacco
3 comments
Ma sanno ancora cosa significa l’ amicizia ? Anche doveri e qui cade l’ asino.
La vedo grigia perché il soprariportato titolo, da solo, ripetuto in più tempi e vari luoghi, dovrebbe sortire effetto e… che effetto. E invece…
Gira su vari siti questo scritto, ottima fotografia dalla mia generazione di boomers.
Per non fare torto a nessun sito, non metto link, ma lo riporto paro-paro.
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Come abbiamo fatto a sopravvivere noi bambini degli anni 50–60–70–80?
1.- Da bambini andavamo in auto che non avevano cinture di sicurezza né airbag…
2.- Viaggiare nella parte posteriore di un furgone aperto era una passeggiata speciale e ancora ne serbiamo il ricordo…
3.- Le nostre culle erano dipinte con colori vivacissimi, con vernici a base di piombo.
4.- Non avevamo chiusure di sicurezza per i bambini nelle confezioni dei medicinali, nei bagni, alle porte.
5.- Quando andavamo in bicicletta non portavamo il casco.
6.- Bevevamo l’acqua dal tubo del giardino invece che dalla bottiglia dell’acqua minerale…
7.- Trascorrevamo ore ed ore costruendoci carretti a rotelle ed i fortunati che avevano strade in discesa si lanciavano e, a metà corsa, ricordavano di non avere freni. Dopo vari scontri contro i cespugli, imparammo a risolvere il problema. Sì, noi ci scontravamo con cespugli, non con auto!
8.- Uscivamo a giocare con l’unico obbligo di rientrare prima del tramonto. Non avevamo cellulari… cosicché nessuno poteva rintracciarci. Impensabile….
9.- La scuola durava fino alla mezza, poi andavamo a casa per il pranzo con tutta la famiglia (si, anche con il papà).
10.- Ci tagliavamo, ci rompevamo un osso, perdevamo un dente, e nessuno faceva una denuncia per questi incidenti. La colpa non era di nessuno, se non di noi stessi.
11.- Mangiavamo biscotti, pane olio e sale, pane e burro, bevevamo bibite zuccherate e non avevamo mai problemi di sovrappeso, perché stavamo sempre in giro a giocare…
12.- Condividevamo una bibita in quattro… bevendo dalla stessa bottiglia e nessuno moriva per questo.
13.- Non avevamo Playstation, Nintendo 64, X box, Videogiochi , televisione via cavo con 99 canali, videoregistratori, dolby surround, cellulari personali, computer, chatroom su Internet … Avevamo invece tanti AMICI.
14.- Uscivamo, montavamo in bicicletta o camminavamo fino a casa dell’amico, suonavamo il campanello o semplicemente entravamo senza bussare e lui era lì e uscivamo a giocare.
15.- Si! Lì fuori! Nel mondo crudele! Senza un guardiano! Come abbiamo fatto? Facevamo giochi con bastoni e palline da tennis, si formavano delle squadre per giocare una partita; non tutti venivano scelti per giocare e gli scartati dopo non andavano dallo psicologo per il trauma.
16.- Alcuni studenti non erano brillanti come altri e quando perdevano un anno lo ripetevano. Nessuno andava dallo psicologo, dallo psicopedagogo, nessuno soffriva di dislessia né di problemi di attenzione né d’iperattività; semplicemente prendeva qualche scapaccione e ripeteva l’anno.
17.- Avevamo libertà, fallimenti, successi, responsabilità … e imparavamo a gestirli.
La grande domanda allora è questa: come abbiamo fatto a sopravvivere?
E a crescere e diventare grandi?
Leggere articoli del genere non fa che confermare il TERRORE che provo nei confronti dei “reticoli sociali”, la tristezza che provo nel considerare le mie nipotine (8 e 6 anni) quali appendici dei propri “furbofoni” e la felicita’ che provo nel non aver mai acquistato (almeno per me) un “device” (ma come diavolo si traduce?)…
Tralasciando, ovviamente, la sudditanza nei confronti della lingua della perfida Albione e di tutto quello che proviene dall’altra sponda dell’Oceano Atlantico…