Roma, 28 giu – In questi giorni i big della finanza fanno a gara per mettere le mani sul Fondo Italiano d’Investimento. Secondo un’indiscrezione de Il Sole 24 Ore: “Il gruppo francese Tikehau, affiancato dall’Italmobiliare della famiglia Pesenti e dall’advisor Leonardo & Co, avrebbe ricevuto un’esclusiva a trattare per quattro settimane dai quotisti del fondo stesso: cioè Cdp e le principali banche italiane, tra le quali Unicredit, Intesa Sanpaolo e Mps”. A mettere i bastoni tra le ruote ai francesi potrebbero esserci gli americani Neuberger Berman.
Questa notizia che sembrerebbe argomento per addetti ai lavori, ha un impatto molto significativo sulla tenuta della nostra economia reale. Vediamo brevemente perché. Il Fondo Italiano d’Investimento è una società di gestione del risparmio italiana costituita nel 2010 con l’obiettivo di creare nel medio termine una fascia più ampia di aziende di media dimensione. Lo scopo era quello di incentivare i processi di aggregazione tra le imprese minori, al fine di renderle maggiormente competitive anche sui mercati internazionali. Insomma, un progetto che sembrava avere un respiro patriottico.
Oggi tra le partecipate del Fondo Italiano di Investimento, presieduto da Innocenzo Cipolletta e guidato dall’ad, Carlo Mammola, ci sono piccole e medie imprese come Ligabue, Filmaster e Surgital. Il Fondo è una società di gestione del risparmio controllata al 43% dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp). Gli altri soci sono Unicredit, Intesa Sanpaolo, Unicredit e con quote minori anche Confindustria e Abi. La forte presenza Cdp, istituzione finanziaria controllata dal 70% dallo stato attraverso il ministero dell’Economia e delle Finanze, è un’ulteriore conferma della mission istituzionale del Fondo.
Fatte queste utili precisazioni, è lecito chiedersi il motivo dell’interessamento del gruppo francese Tikehau e dell’americana Neuberger Berman. Davvero le multinazionali del credito sono così ansiose di aiutare le piccole e medie imprese italiane? Difficile pensarlo. I numeri lo dimostrano. La compagnia di investimento d’Oltralpe, infatti, ha in gestione 10,3 miliardi di euro di asset e 170 dipendenti negli uffici di Parigi, Londra, Bruxelles, Milano Madrid, Seul e Singapore. Il presidente Antoine Flamarion ha un passato in Merrill Lynch e Goldman Sachs tra Parigi e Londra. Per non parlare poi dei concorrenti statunitensi di Neuberger Berman, un asset manager con 267 miliardi di dollari in gestione di cui circa quarantacinque miliardi in private equity.
Quanto detto però non basta. Per comprendere meglio la notizia di oggi è necessario fare un passo indietro. Il 22 marzo scorso il giornalista Carlo Festa de Il Sole 24 Ore ventilava l’ipotesi che ci fosse in corso: “Un processo per cedere il pacchetto di partecipate del Fondo Italiano d’Investimento controllato dalla Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). Il processo sarebbe gestito, per conto del fondo, dalla banca d’affari internazionale Credit Suisse”. Qualche guru del libero mercato sarà sicuramente pronto a benedire questa sana ventata di internazionalizzazione nel nostro provinciale capitalismo. In questo caso, però, la modernizzazione fa rima con distrazione, ossia si sottraggono in maniera fraudolenta, risorse all’economia reale per farle confluire nel pozzo senza fondo della speculazione finanziaria.
Salvatore Recupero