Roma, 5 mar – Sprofondo rosso. Sempre più. Al netto delle dichiarazioni entusiastiche dei vertici del partito, a partire da quelle di Romano Prodi, che è arrivato a scomodare Annibale e Roma per giustificare lo scatto di orgoglio del Pd, le primarie di domenica scorsa si inseriscono perfettamente in una dinamica che somiglia a una vera e propria caduta libera. Un’emorragia di consensi nel tempo da far tremare i polsi, al più tamponata occasionalmente.
Il Pd festeggia, ma è al minimo storico
Voti. Iscritti. Partecipanti alle consultazioni di partito. Da qualunque lato la si voglia vedere la crisi in casa Pd parte da lontano. A cominciare dal numero dei votanti. I numeri non hanno bisogno di commenti, solo di essere trascritti in rigoroso ordine cronologico: 12 milioni di voti alle Politiche del 2008; 8 milioni alle Europee del 2009; 8,6 milioni alle Politiche del 2013; 11,2 milioni alle Europee che consacrarono l’effimera stella di Renzi; 6,1 milioni alle Politiche del 2018. Dieci anni, e i voti si sono dimezzati.
Stessa parabola per le primarie, uno strumento che riscosse particolare successo, una vera e propria innovazione agli albori, quando nel 2005 Prodi venne incoronato candidato premier con 4,3 milioni di persone che si recarono ai gazebo. Andò un po’ peggio a Walter Veltroni che divenne segretario Pd nel 2007 con 3,5 milioni di votanti. Una parabola, discendente tanto per cambiare, continuata da Pier Luigi Bersani, che nel 2009 divenne segretario in una votazione che coinvolse 3,1 milioni di persone. Lo stesso numero lo decretò candidato premier nel 2012. Matteo Renzi, nonostante soffiasse forte il vento della rottamazione, portò solo 2,8 milioni di persone ai gazebo nel 2013. Un risultato largamente inferiore arrivò per il suo canto del cigno, la rielezione del 2017, quando furono oltre 1,8 milioni i votanti. Numeri alla mano, domenica scorsa si sono presentati in 1,7 milioni. Altri centomila elettori in meno.
Ma per il Pd, un po’ come successe dopo il voto regionale in Sardegna, c’è da festeggiare. Se non altro, il trend pare arrestato. E per chi sta sentendo mancare il terreno sotto i piedi, con un partito che sarà pure democratico ma sempre meno popolare, è già qualcosa. Sempre tenendo conto che circa un elettore su quattro (rispetto alle Politiche) si è scomodato per raggiungere i seggi del partito.
Crollati i tesserati. I soldi arrivano dai contributi
Votanti e primarie, ma anche sul fronte iscritti c’è poco da stare allegri in casa Pd. Si sa: i dati, quando si tratta di tessere, sono quello che sono per i partiti. E vanno presi con un po’ di clemenza. Ma anche qui consentono, sia pure con alcune lacune, di tracciare un quadro desolante.
Secondo Wikipedia, che cita documenti del partito, nel 2009 erano in 831mila che credevano nella formazione nata dalla fusione tra Margherita e Ds. Poi anche i tesserati sono saliti sullo scivolo e sull’altalena: 617mila nel 2010, 607mila nel 2011, 500mila nel 2012, 539mila nel 2013, 378 mila nel 2014, 395mila nel 2015, 450mila nel 2016. Per il 2017 e 2018 non ci sono dati disponibili. Ma il trend sembrerebbe essere al crollo, come riportato da più fonti di informazioni, anche se per il 2019, in vista delle primarie, si è letto di 374mila tessere.
In aiuto possono però arrivare i bilanci depositati del Pd. In quello al 31 dicembre 2017, le quote associative ammontano a 51.199 euro. Ancora peggio era andata nel 2016, dove risulta la miseria di 13mila euro registrati sotto questa voce. Nel 2015 erano stati 202mila. Ammontano invece a 9,4 milioni i contributi da persone fisiche (erano 7,6 nel 2016). Che sul tesseramento il Pd conti sempre di meno, e punti semmai sui contributi (da persone fisiche e giuridiche) lo si intuisce anche dalla pagina della suo sito ufficiale dedicata alla trasparenza. Dove si può ancora leggere: “Tesseramento 2015. Il tesseramento 2015 è cominciato cosa aspetti”. Il prossimo secolo. Per aggiornare il sito.
Fabrizio Vincenti