Roma, 19 mar – Oggi è la festa del papà. Al padre, invece, che è una cosa diversa, la festa l’abbiamo già fatta tanto tempo fa. La differenza tra i due concetti è ben presente nelle lingue indoeuropee. Un certo numero di esse riporta una denominazione che è si rispecchia nell’ittita atta e che ricorre in maniera pressoché identica anche in latino, greco, gotico e antico slavo. Ci sono poi i termini che, praticamente ovunque, derivano dalla radice *pǝter. Qual è la differenza? L’ultima denominazione designa il dio supremo degli indoeuropei. Il nome Jupiter non è altro che una formula di invocazione indoeuropea: *dyeu pǝter, “Cielo padre!”. Chiosa Benveniste: «Ora, in questa funzione originaria, la relazione di paternità fisica è esclusa. Siamo al di fuori della stretta parentela e *pǝter non può designare il “padre” in senso personale». Atta, invece, è esattamente il padre in senso colloquiale, la persona fisica del “papà”, un individuo in carne e ossa. Il pater è quindi qualcosa di più di un semplice genitore: è la rappresentazione stessa della verticalità, l’asse che non vacilla.
Non è un caso se oggi gli avversari dell’ideologia gender da posizioni bigotte riescono tutt’al più a difendere il papà, ma mai il padre, dato che la nostra società, anche nelle rivolte ben motivate, non riesce a svincolarsi da una dimensione di patetica empatia individualista. Deriva che, peraltro, ben descrive a sua volta proprio la perdita di quella centralità. La nostra memoria ancestrale ci consiglierebbe diversamente. A Roma, si sa, era fondamentale la figura del pater familias, che riguardava colui che, non avendo più ascendenti vivi in linea maschile, diventava il capo della famiglia, prescindendo dalla presenza effettiva di figli in quel momento, anche se ovviamente il fatto di generare una discendenza non era certo considerato un optional. La sua figura era sociale, politica, comunitaria e anche religiosa. Scriverà Julius Evola, proprio in riferimento alla figura del pater familias a Roma: «Il padre era appunto il sacerdote virile del fuoco sacro familiare, epperò colui che per i suoi figli, i suoi congiunti e i suoi servi doveva apparire come un “eroe”, come il mediatore naturale di ogni rapporto efficace col sovrasensibile, come il vivificatore per eccellenza della mistica forza del rito nella sostanza del fuoco […]. Manifestazione della componente “regale” della sua famiglia quale “signore della lancia e del sacrificio”, soprattutto nel pater si incentrava il compito di non lasciar “spegnere il fuoco”, nel senso di riprodurre, continuare e alimentare la mistica vittoria dell’avo».
Riflesso del cielo, che ci illumina e ci protegge, che dà senso alla terra e che ci rende mortali al cospetto degli Dèi, il pater è una figura di luce, che rischiara il mondo con quella che Adriano Romualdi chiamava «spiritualità diurna». Tale bagliore fa rifulgere il cosmo come Ordine originario, secondo quanto espresso dal vedico ṛta e dall’iranico arta, a partire dalla radice indoeuropea *ar-, da cui derivano significativamente tanto ritus che ars. Si tratta di un nodo di significati che unisce religione ed etica, diritto e arte, politica e filosofia. L’Ordine è ciò che detta il ritmo degli Dei e degli uomini, del cielo e della terra. E il pater è, nel mondo dei mortali, il custode di quest’Ordine. Questa concezione permea talmente tanto la romanità che lo storico Yan Thomas ha potuto parlare di una “città dei padri”.
Sotto il segno del pater sta, ovviamente, la patria. E un significativo raddoppiamento della funzione paterna si ha con la qualifica di pater patriae. Ai tempi di Virgilio, la storia di Roma veniva pensata come divisa in tre cicli da 365 anni, ciascuno posto sotto la protezione di un padre della patria. Il primo era stato Romolo, l’eroe fondatore, l’uomo civilizzatore, colui che tracciò il solco dopo aver preso gli auspici tracciando con il bastone/scettro augurale, che a sua volta richiama inequivocabilmente la verticalità fallica paterna, l’equivalente in cielo dello spazio sacro in terra. Gli altri due padri della patria erano Furio Camillo e Ottaviano Augusto, autori di altre due “fondazioni” metaforiche, di due nuovi inizi, di due ri-creazioni dell’Ordine.
Oggi, invece, la distruzione della patria richiama necessariamente anche l’attacco al padre. La paternità, la virilità spirituale, la verticalità non cessano di essere processati. Tutta la cultura dominante è sotto il segno di una sorta di mammonismo spirituale. Tutto questo, si badi, non ha nulla a che vedere con la funzione femminile o materna, ma con la sua ideologizzazione e con il tentativo di scardinare l’organicità che unisce maschile e femminile, per giocare il secondo elemento contro il primo. È peraltro ovvio che quando si deformano gli equilibri che reggono una differenza, entrambi gli elementi ne risentono. Il padre è la Legge. La madre è la Cura. Si tratta di due dimensioni pensabili solo insieme, se uno dei due elementi viene meno, l’altro si gonfia, si deforma, alla fine esplode. La Legge, da sola, diventa arida, si secca. La Cura, da sola, diventa liquida, perde forma. E infatti, pur propagandando valori tipicamente femminili, la nostra società non “vuole bene” alle donne, che umilia, deforma e prosciuga in ogni modo. Sugli scudi non è la madre, ma la sua maschera deforme, la Grande Madre postmoderna, riemersione di un archetipo oscuro avvolto dai fumi densi di sacrifici umani che oggi, forse, si stanno di nuovo compiendo sotto i nostri occhi.
Adriano Scianca
1 commento
Articolo di una profondità eccezionale, da leggere e rileggere.
Complimenti.