Roma, 6 gen – Il mondo non dobbiamo necessariamente accettarlo così com’è. L’uomo ha sempre la possibilità, grazie alla sua volontà creatrice, di trasformalo. È questo, in sostanza, il messaggio che ci viene dalla tradizione filosofica dell’idealismo. Ed è sempre questo il fil rouge lungo cui si dipana l’interessante volume di Diego Fusaro Idealismo e prassi: Fichte, Marx e Gentile (Il melangolo, pp. 414, € 35), uscito da qualche mese nelle librerie italiane.
L’autore, giovane filosofo torinese e ricercatore presso l’Università San Raffaele di Milano, è tra le altre cose il fondatore di filosofico.net, il sito internet in cui, volenti o nolenti, sono incappati quasi tutti gli studenti di filosofia. Fusaro inoltre, a dispetto dell’età, ha già dato alle stampe diverse e interessanti opere, come Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario (2009) e Minima mercatalia: filosofia e capitalismo (2012). Più in particolare, Fusaro appartiene a quella sinistra, purtroppo minoritaria, che ha come esponenti di punta il compianto Costanzo Preve e Gianfranco La Grassa. Quella sinistra cioè che, nell’epoca del dilagante trasformismo della sinistra «istituzionale», non ha rinunciato ai padri nobili della sua tradizione culturale e a una critica serrata dell’odierno capitalismo, ossia il capitalismo finanziario (o «finanzcapitalismo», secondo la definizione di Luciano Gallino).
Insomma il postcomunista Pd, rinnegando la sua storia, ha ceduto in tutto alle logiche del capitale, costituendone anzi una delle «sovrastrutture» ideologiche (per usare il linguaggio marxiano) con la sua bieca retorica del politicamente corretto e la paradossale difesa della legalità e delle regole (capitalistiche). Come direbbe Fusaro, si è passati da Carlo Marx a Roberto Saviano, da Antonio Gramsci a Serena Dandini.
Di qui la rivolta del giovane filosofo che, rileggendo Marx, offre una chiara interpretazione del pensatore di Treviri come nemico di ogni supina accettazione dell’esistente, ponendo in rilievo gli aspetti idealistici del suo pensiero. Di qui, anche, il rifiuto di ogni pensiero debole postmoderno e l’assunzione da parte della filosofia di una funzione interventista e attivistica. La filosofia, dunque, non più vista come mera erudizione estetizzante o come cane da guardia del «migliore dei mondi possibili», ma come strumento per trasformare la realtà. Una filosofia, insomma, che riacquista finalmente la sua dimensione epica ed eroica, come la intendeva Giovanni Gentile.
Ed è proprio al filosofo di Castelvetrano e al suo rapporto con Marx che Fusaro dedica pagine importanti del suo nuovo libro, proponendo un’interpretazione certamente unilaterale del pensiero marxista, ma tutt’altro che illegittima. È in particolare il Marx delle Tesi su Feuerbach che emerge prepotentemente dall’opera di Fusaro: quel Marx che criticava il materialismo «volgare» dello stesso Feuerbach e che si concentrava maggiormente sul concetto di prassi – quella prassi che, contro ogni determinismo, era sempre in grado di rifiutare una realtà sentita come estranea per fondare un nuovo mondo. La prassi, quindi, come fonte inesauribile di rivoluzione.
Non è un caso, del resto, che sarà proprio Gentile a valorizzare il Marx filosofo della prassi, in quel famoso volume (La filosofia di Marx, 1899) che Augusto Del Noce indicò, non senza qualche evidente esagerazione, come l’atto di nascita del fascismo. Nonostante una ottusa damnatio memoriae che ancora grava su Gentile, ma che è già stata messa in crisi da molti autorevoli filosofi (Marramao, Natoli, Severino, ecc.), Fusaro riafferma la indiscutibile grandezza filosofica del padre dell’attualismo. Lo definisce giustamente, anzi, come il più grande filosofo italiano del Novecento. Non per una mera questione di gusto o di tifo, naturalmente, ma per un fatto molto semplice: tutti i filosofi italiani del XX secolo, nello sviluppo più vario del loro pensiero, si sono necessariamente dovuti confrontare con Gentile. «Gentile – scrive l’autore – sta al Novecento italiano come Hegel – secondo la nota tesi di Karl Löwith – sta all’Ottocento tedesco».
Fusaro, dunque, ricostruisce tutto quel percorso intellettuale che da Fichte, passando per Hegel e Marx, giunge sino a Gentile che, non a caso definito Fichte redivivus da H. S. Harris, chiude il cerchio. Di qui l’interpretazione dell’atto puro di Gentile alla luce della prassi marxiana, così come, per converso, la lettura di Gramsci come «gentiliano» che ha conosciuto Marx filtrato dal filosofo siciliano. Tesi, quest’ultima, tutt’altro che nuova (pensiamo anche solo ai recenti lavori di Bedeschi e Rapone), ma che ancora non ha fatto breccia negli ambienti semi-colti del «ceto medio riflessivo» che legge Repubblica, ripudia Gramsci e ha per guru Eugenio Scalfari.
Ad ogni modo, non mancherebbero le obiezioni ad alcune tesi di Fusaro sul rapporto di Gentile con Marx, dal momento che l’autore non tiene nel minimo conto gli elementi mazziniani e nietzscheani del pensiero del filosofo attualista, così come manca qualsiasi riferimento alle correnti culturali del fascismo che provenivano dal socialismo non marxista e che non mancarono di influenzare Gentile. Mi riferisco, in particolare, al sindacalismo rivoluzionario (A. O. Olivetti, S. Panunzio) e al socialismo idealistico dello stesso Mussolini: quel socialismo, cioè, che aveva scoperto che rivoluzionaria non era la classe, ma la nazione. Mi riferisco, inoltre, alle giovani leve degli anni Trenta che volevano edificare la «civiltà del lavoro», glorificata dal fascismo con il cosiddetto «colosseo quadrato» che campeggia tra le imponenti costruzioni dell’Eur.
Senza Mazzini e gli altri «profeti» del Risorgimento, del resto, non si potrebbero comprendere gli elementi nazionali del pensiero gentiliano, così come il significato che Gentile dava al termine «umanità». Far discendere l’«umanesimo del lavoro» di Genesi e struttura della società (1946, postumo) da un «ritorno» di Gentile a un confronto con Marx, come fa Fusaro, è dunque possibile solo se si prescinde deliberatamente da tutto il dibattito che la cultura fascista sviluppò negli anni Trenta, con Ugo Spirito, Berto Ricci e Niccolò Giani. E in questo senso allora sarebbe anche possibile interpretare l’umanesimo gentiliano in senso egualitarista. Ma lo stesso Gentile, in alcuni importanti interventi, ha chiarito come intendeva l’universalità (e non l’universalismo), che doveva basarsi sul concetto romano di imperium e su una missione civilizzatrice dell’Italia (e qui ritorna Mazzini), come messo ben in evidenza da Gentile nel fondamentale articolo Roma eterna (1940). Un’universalità verticale, quindi, intesa come ascesa, e non un universalismo orizzontale e azzeratore delle differenze in nome di un’astratta concezione di uomo, avulsa da qualsiasi contesto storico e culturale concreto. In questo senso, dunque, l’umanesimo gentiliano è fondamentalmente sovrumanismo, come lo ha magistralmente descritto Giorgio Locchi.
Anche sul concetto di «apertura della storia», su cui giustamente insiste il Fusaro, bisognerebbe intendersi. D’altronde, già Karl Löwith sottolineò, nell’immediato dopoguerra, il messianismo intrinseco alla filosofia della storia marxiana. Secondo la teoria scientifica, infatti, il proletariato, ottenuta la coscienza di classe grazie allo sfruttamento capitalistico, avrebbe dovuto, per il tramite dell’azione del partito comunista, abolire le classi e lo Stato, ristabilendo le condizioni dell’Urkommunismus, sebbene in una forma «arricchita», con tutti i vantaggi, cioè, della moderna tecnologia. In questo senso, il marxismo lavorava anch’esso per l’uscita dalla storia che, invece di coincidere con la planetaria democrazia liberale di Francis Fukuyama, avrebbe istituito l’agognata società comunista e la fine di ogni volontà storificante dell’uomo.
Ad ogni modo, queste brevi e sintetiche obiezioni non vogliono in alcun modo sminuire l’eccellente opera di Fusaro, che è invece quanto di meglio si possa leggere oggi in un desolante contesto politico e culturale totalmente appecoronato alle logiche demoliberali, mondialiste e finanzcapitalistiche. La rilettura di Marx in senso idealistico, anzi, ha un innegabile merito: riportare al centro dell’azione politica la volontà creatrice dell’uomo, che scaturisce dalla sua libertà storica. È, in altri termini, il ritorno della filosofia a un approccio rivoluzionario alla realtà. Filosofia non più intesa come glorificazione dell’esistente, ma come motore di storia. Il che, si converrà, se non è tutto, è certamente molto.
Valerio Benedetti