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Mafie straniere in Italia: ecco l’allarmante quadro della Dia

by Fabio Pasini
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Roma, 20 lug – Sulla criminalità organizzata straniera in Italia emergono dati e analisi molto interessanti dalla Relazione della Direzione investigativa antimafia relativa al secondo semestre del 2018. Dal rapporto della Dia viene fuori che tra le organizzazioni criminali di matrice estera presenti sul suolo italiano, quella albanese “continua ad apparire tra le più pericolose, anche in ragione della spiccata vocazione a intessere proficue relazioni internazionali”.

“Un suo punto di forza è sicuramente la presenza capillare sul territorio, caratterizzata da forme associative ben strutturate, composte da nuclei che si raccordano direttamente a propri referenti presenti in Albania, specie per l’approvvigionamento di stupefacenti”, attività privilegiata che dà a questi gruppi “un ruolo importante nei rapporti con le altre organizzazioni criminali, anche straniere, tanto da rappresentare, per alcuni gruppi mafiosi, soprattutto pugliesi, un canale privilegiato per l’approvvigionamento di stupefacenti, principalmente eroina e cocaina, potendo confidare su una fitta rete di connazionali operanti, oltre che in madrepatria, anche in America del sud, Olanda, Spagna, Turchia e Inghilterra”.

La criminalità cinese

Mentre la criminalità cinese, evidenzia la Dia, “continua a concentrare i propri interessi criminali prevalentemente nel favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, finalizzata al lavoro ‘nero’, alla prostituzione e alla tratta degli esseri umani, nei reati contro la persona, rapine ed estorsioni in danno di connazionali, contraffazione di marchi e contrabbando di sigarette”. La criminalità cinese è riuscita, nel tempo, a mantenere una fitta rete di rapporti ramificati su buona parte del territorio nazionale: la Toscana, innanzitutto con Prato e Firenze, la Lombardia, ma anche il Veneto, l’Emilia Romagna ed il Piemonte sono le regioni che annoverano le comunità cinesi più numerose. Molte operazioni dimostrano poi il coinvolgimento dei cinesi nelle attività illecite riguardanti gli stupefacenti, in particolare cannabis (la cui coltivazione è stata resa legale dall’autorità cinesi) e metanfetaminici, come lo shaboo: allo stato, è noto che la sua importazione avvenga “prevalentemente ad opera di cittadini cinesi, che si rivolgono a fornitori presenti nel nord o nell’est Europa. Il successivo smercio avviene sia all’interno della comunità cinese o, in altri casi, la droga viene ceduta a pusher filippini che, a loro volta, riforniscono i propri connazionali”.

La criminalità rumena

Per la criminalità rumena, il traffico di stupefacenti, anche in concorso con soggetti criminali italiani, lo sfruttamento della prostituzione, la tratta di persone, l’intermediazione illecita dello sfruttamento della manodopera rimangono i reati di maggior interesse. Le indagini degli ultimi anni hanno evidenziato, invece, l’interesse dei gruppi criminali originari dei Paesi dell’ex Unione Sovietica soprattutto verso la commissione di reati contro il patrimonio, verso il traffico di stupefacenti e di armi, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e lo sfruttamento della prostituzione, mentre non viene escluso un più ampio sistema di riciclaggio e reimpiego dei proventi illeciti in Italia ed in altri Stati d’Europa.

La criminalità sudamericana

Per quanto riguarda la criminalità sudamericana, che comprende componenti di origine boliviana, colombiana, venezuelana, dominicana, peruviana ed ecuadoriana, si confermano gli interessi nei traffici internazionali di stupefacenti, nello sfruttamento della prostituzione e nei reati contro il patrimonio e la persona. Questi gruppi, evidenzia la Dia, “rappresentano un costante punto di riferimento, anche per la criminalità organizzata autoctona, per i traffici di droga, specie di cocaina, sfruttando a questo scopo le rotte marittime ed aeree, passando per scali intermedi per eludere i controlli”. Tra i vari gruppi, resta alta la pericolosità delle ”gang” dei latinos, le cosiddette pandillas, diffuse soprattutto nelle aree metropolitane di Genova e Milano. Anche i gruppi criminali del Centro- Nord Africa stanziati nel nostro Paese interagiscono, spesso, con cittadini italiani o di altre nazionalità, in particolare per il traffico e lo spaccio di sostanze stupefacenti.

La criminalità nigeriana

La criminalità organizzata nigeriana in Italia ha preso piede dal Nord al Sud al punto tale che “in molti casi ha addirittura impressionato gli stessi mafiosi italiani”. Lo rileva sempre la relazione della Dia riferita al secondo semestre del 2018. “Si tratta di gruppi – si legge nella relazione – che nel tempo sono stati in grado di avviare importanti sinergie criminali con le organizzazioni mafiose autoctone, ma di diventare essi stessi associazioni di tipo mafioso perseguibili ai sensi dell’art. 416 bis c.p.”. In sostanza, spiega la Dia, “ci si trova davanti a una mafia, tribale e spietata, difficile da decifrare nelle dinamiche interne, che dal Nord Italia si è progressivamente diffusa su tutto il territorio nazionale, fino in Sicilia, dove ha trovato un proprio spazio, anche con il sostanziale placet di Cosa Nostra”.

La Dia rileva ad ogni modo che “tutti gli strumenti investigativi sperimentati positivamente contro le mafie nazionali sicuramente possono essere efficacemente applicati alla mafia nigeriana e alle altre espressioni mafiose non tradizionali”. La mafia nigeriana opera con “logiche che rimandano costantemente a un network criminale internazionale, con base in Nigeria, cui fare riferimento. Sul piano investigativo allora la visione dovrà essere sempre più orientata ad investire nell’analisi delle rotte internazionali delle potenziali ‘cellule’ di questo network, la cui strategia sicuramente punta a fare affari attraverso il traffico internazionale di stupefacenti e la tratta di persone ridotte in schiavitù, non di rado mimetizzate tra i flussi di immigrati clandestini”. La Dia ricorda poi che non si può prescindere “dal riservare la massima attenzione verso gli istituti penitenziari, per evitare che alimentino percorsi di radicalizzazione”.

Fabio Pasini

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