Roma, 28 ott – Margine di flessibilità o golden rule, che dir si voglia. In sostanza, uno “sconto” chiesto a Bruxelles. L’ambito sono ovviamente le politiche di bilancio e ago della bilancia il parametro-obiettivo del rapporto 3% deficit/Pil. Dal governo è arrivata infatti una richiesta alla commissione europea di scomputare dal calcolo del passivo della contabilità nazionale le somme versate a titolo di cofanziamento accanto agli stanziamenti europei per la realizzazione delle opere di rilevanza comunitaria. Nello sviluppo di queste opere –principalmente infrastrutturali– è infatti previso un finanziamento a livello di Unione Europea al quale si affianca una quota nazionale. Eliminando quest’ultima si riuscirebbe a limare una percentuale pari allo 0.3% del Pil (poco meno di 5 miliardi) essenziale per mettere insieme un margine di sicurezza. Il ragionamento segue una logica lineare, tecnicamente inappuntabile. Dal punto di vista pratico, sono tuttavia almeno due i problemi che emergono.
Anzitutto, l’incapacità tutta italiana di arrivare all’effettivo impegno delle somme stanziate. L’Italia si colloca nei fatti al penultimo posto (davanti solo alla Romania) per perfezionamento della spesa in realizzazioni concrete. L’ex ministro Barca riuscì in extremis a evitare il ritiro degli stanziamenti attraverso una rapida riprogrammazione che diede una decisiva accelerata. La questione ruota attorno ai centri di spesa e cioè le stesse paludi burocratiche che, Europa o meno, fanno lievitare i tempi di realizzazione delle opere. Senza un’adeguata riforma che passi dalla rimodulazione delle competenze tra Stato e regioni e agisca sul meccanismo spesso perverso della famigerata “conferenza di servizi” in cui ogni ente è autorizzato in sostanza a staccare un dividendo compensativo, difficilmente si potrà affrontare l’ostacolo.
In secondo luogo, una valutazione più di scelta politica. Ormai così banale da passare fin quasi in secondo piano. Il riferimento è sempre alla soglia 3% deficit/Pil, rimasta sostanzialmente invariata dal Trattato di Maastricht (correva l’anno 1992) ad oggi. Attorno a questa cifra e alle sue frazioni sembra giocarsi ogni tipo di partita. Da quelle in cui il governo di turno decide di glissare sul suo rispetto in nome di un deficit spending di stampo più keynesiano a quelle in cui si fa voto di stabilità e l’esecutivo in carica mira all’obiettivo come principale scelta. Milton Friedman e la scuola di Chicago, per esemplificare. Il primo caso è quello francese, il secondo l’italiano almeno a partire da Monti per poi proseguire con il duo Letta–Saccomanni. Capacità politica e diplomatica con una percentuale insignificante a rappresentare, nelle parole dei protagonisti, fin un successo. Certo, analoghi andamenti in termini di crescita, occupazione, in una parola sviluppo forse darebbero più il senso e una misura del successo. Questione di priorità.
Filippo Burla