Roma, 24 ott – Ricorreva ieri l’anniversario dell’inizio della rivolta ungherese. Era, infatti, il 23 ottobre 1956 quando le strade di Budapest cominciarono a ribollire contro il giogo sovietico. Una protesta che presto divenne una lotta nazionale a tutti gli effetti. Una data, questa, che non può passare inosservata e che ci racconta molto del mondo in cui ci viviamo.
23 ottobre 1956: scoppia la rivolta ungherese
Nel clima della Guerra fredda, con un mondo diviso a metà, la rivolta ungherese fu uno scossone notevole, soprattutto contro quella narrazione di chi voleva rappresentare come un idillio l’Unione sovietica e i Paesi sotto il suo ombrello, e che magari avrebbe voluto realizzare il comunismo anche nella parte occidentale dell’Europa. Iniziata come una manifestazione di studenti e intellettuali, scesi in piazza in solidarietà dei propri “omologhi” polacchi di Poznań e per chiedere maggiori libertà politiche, si caricò via via di significati maggiori, anche a causa della spietata repressione russa. La protesta si allargo e divenne più chiaro che ad animarla non era solo l’anticomunismo, ma anche le istanze nazionaliste. Una lotta che assunse poi i contorni di una guerra guerreggiata, finendo per essere represse nel sangue dai carri armati sovietici.
“Il sole non sorge più a Est”
È facile intuire il perché la rivolta ungherese finì ben presto per entrare nell’universo mitico e simbolico di una certa area politica. Non è un caso che una delle canzoni più note della destra italiana sia proprio Avanti ragazzi di Buda di Pier Francesco Pingitore. Facendo un balzo in avanti nel tempo ai giorni nostri, quella canzone e il ricordo di quegli eventi però rischiano di suscitare qualche imbarazzo. Il nemico di allora, cioè i russi, per alcuni è diventato una sorta di katechon, di salvatore e redentore. Così c’è chi si affrettare a dire che quella ungherese “fu la prima rivoluzione colorata della storia, nulla di più”, un gioco dietro le quinte degli americani, o chi si affatica in distinguo tra russi e sovietici (distinguo che agli stessi russi non interessa), o chi vorrebbe farne la prova provata che la fedeltà al proprio governo non esiste e quindi gli europei (compresi gli ucraini) non dovrebbero sentirsi in dovere di difendere i loro, essendo questi ultimi occidentalisti, come se oltre ai governi non fosse in gioco la nazione.
Quel rifiuto della storia di chi oggi si imbarazza
Le eredità sono vive fin quando sono conflittuali. Di certo non è nostra intenzione fare della rivolta ungherese un santino fermo agli anni ‘50. Le continuità, per così dire, filologiche si possono anche spezzare, ma il come e il perché ciò avvenga ci racconta molto di noi. Così il bisogno di smobilitare il contenuto di una rivolta, di sminuire gli attori in campo, di denigrare i combattenti, di disegnare orditi nascosti per spiegare le sollevazioni di piazza, di ricercare valori assoluti, sono tutti elementi che vanno delineare una tendenza comune: quella del rifiuto della storia. La storia, ovviamente, non intesa come semplice esercizio storiografico, ma come campo di battaglia.
Michele Iozzino