Roma, 13 ago – La personalità di Ottaviano Augusto riveste un ruolo centrale nell’ambito della Tradizione di Roma: come ci ha ricordato Adriano Scianca nel suo libro “L’Identità Sacra”, egli può essere considerato all’interno di una triade un co-fondatore dell’Urbe, insieme a Romolo e Furio Camillo, per la costituzione dell’Impero e per la sua profonda riforma religiosa. Quest’ultima, a nostro avviso, si rese essenziale per la prosecuzione della Religio, dopo che molti culti, molti collegi sacerdotali furono decaduti o quasi abbandonati, come già aveva denunciato un Varrone nel suo De Lingua Latina, i Romani avendo quasi dimenticato la propria eredità spirituale. Il rinnovamento attuato da Ottaviano fu, pertanto, necessario e salvifico, ma ebbe come fulcro essenziale una divinità apparentemente non romana, cioè Apollo. Analizzeremo sinteticamente il rapporto profondo che legò l’Augusto al culto apollineo e come questo sia, in realtà, connesso primordialmente alla Romanità, più di quanto un’esegesi formalistica possa intendere.
Come narrano le fonti, la fortuna militare e politica di Ottaviano fu favorita dalle due grandi vittorie nel 36 a.C. su Pompeo a Naulochos e nel 31 a.C. su Marco Antonio ad Azio (sulla cui collina, non casualmente, dominava un tempio del Dio Saettatore), ma tale fortuna, come nei casi di Romolo/Quirino e Cesare assunse una valenza rafforzata, di natura sacrale e divinizzante. Augusto venne identificato come, non solo il fondatore dell’Impero, ma anche il Pacificatore, colui che riuscì a rinsaldare l’ancestrale patto coi Numi, rinnovandone i riti e ricevendone propizia vicinanza nel suo governo. Alcuni esempi sono fondamentali per comprendere realmente come la sua persona fosse percepita come un’ipostasi degli Dei: i sacerdoti e le sacerdotesse pregavano in suo favore durante le supplicationes per il popolo e il Senato; il Senato decise che il suo nome fosse aggiunto negli inni sacri a quello degli dei, come nel caso del carmen Saliare; egli fu autorizzato a cingere in tutte le feste la corona trionfale, ad eleggere sacerdoti in numero superiore a quello tradizionale. Come testimoniano gli acta fratrum Arvalium, egli era invocato quale garante e protettore della Res Publica, quale incarnazione vivente della Salus Publica, detentore della mano ferma e decisa di Marte Ultore tramite cui si “conosce Giove e si diviene Apollo”. Parimenti a Romolo, la sua ascensione al cielo si realizzò nel medesimo luogo e preceduto da segni fatali precisi: alcuni giorni prima, un’aquila apparve e si adagiò nel Pantheon sulla lettera A di Agrippa, durante la sua presenza alla chiusura dei riti per il censimento.
L’Imperatore ed il Pontefice Massimo Ottaviano Augusto personificò, pertanto, il Nume a cui Proclo nel suo Commento al Cratilo di Platone (CLXXIV – CLXXVI), integrando l’interpretazione socratica, attribuì le virtù dell’Unificatore, dell’Autorità che realizza il Bene nella sua totalità e nella molteplice manifestazione dell’esistenza terrena, Apollo, quale fondamento di colui che spiritualizzando se stesso sacralizza il Cosmo, quindi la comunità, quindi la Patria:”…il Demiurgo del Tutto rende il Tutto non soggetto a malattia e vecchiaia attraverso la medicina intellettiva che reprime anticipatamente e non permette neppure che venga a sussistere tutto ciò che è contro natura; conduce all’ordine ciò che è irregolare e disordinato attraverso la divina arte del saettare…”.
Anche i riferimenti calendariali ci conducono su medesime considerazioni: dai Ludi Apollinari di Luglio, al 9 di agosto dedicato al Sol Indiges, quale Sole nativo e primordiale, fino alla festa del 12 agosto dedicato ad Ercole Invitto, emerge una precisa conoscenza iniziatica, tramite culti e simboli, di natura espressamente palingenetica, in cui l’uomo è autorevolmente il Divino nello Stato; non un suo legato, ma egli stesso incarna la potestas e la maiestas domini del Nume. In queste nostre note, vorremmo che si evinca una diversa modalità d’approccio alla sacralità dell’Urbe, prettamente interna e realizzativa, come attuazione di una connessione profonda che sappia organicamente ricomprendere il Platonismo, l’arcaica religiosità romana e la dimensione misterica. Nella sacralità di Augusto, infatti, connessa all’archetipo apollineo si ritrovano le tracce della prospettiva che fu prima di Plutarco e poi del divo Giuliano e di Proclo: la Luce dell’Empireo si assume quale espressione di una Divinità non intesa come entità teistica, ma come autentica potenza encosmica, materia essenziale del Nous, dell’Intelletto Primo, che è d’uopo interpretare quale funzione realizzata del cosiddetto Lume Interiore, la permanenza perenne del Divino nella caduca condizione umana, da cui ci si può riscattare proprio riattivandosi, ricordandosi della presenza di tale forza in sé:” Ecco perché il teurgo che conduce il rito iniziatico appropriato a questo dio incomincia dalle purificazioni e dalle aspersioni lustrali: << e in primo luogo il sacerdote stesso che dirige le opere del fuoco, si asperga con l’onda fredda del mare rimbombante >>” (Proclo, Commento al Cratilo di Platone, CLXXVI – 101).
E’ la conoscenza dell’archetipo, che è realizzazione dell’Augusto tramite la conoscenza di sé, che conduce il Sapiente alla perfetta immedesimazione con l’Uno Assoluto, con A-Pollon, l’Essere Ineffabile che sublima ogni dualità, ogni distinzione, ogni dramma vitale, per essere autentica. Ella è la Matrice da cui la Sapienza Ieratica Primordiale emana, appunto l’Apollo Iperboreo, la natura interna di Giano, indi della più arcaica e profonda Romanità, quale simbolo imperituro della lotta vittoriosa che si può ingaggiare solo rendendo reale una philia teurgica con gli Dei, un’affinità universale tale da consentire, tramite una vera e propria Apoteosi, l’espressione dell’unica libertà che il Fatum concede agli uomini, come in Ottaviano. In merito, se i riferimenti fossero solo una questione di adorazione cultuale, non si comprenderebbe il riferimenti alla Fides – che ha derivazione semantica diversa dal verbo credere -, proprio perché la Palingenesi nei Misteri non realizza una devozione cultuale agli Dei, ma un’attività che dissecca l’umidità cultuale per il conseguimento dell’Ourania Somata, cioè il corpo celeste, quell’essere a tu per tu coi Numi, di cui scrive Plotino, l’Hènosis, l’identificazione suprema all’Uno, la via degli Arcana Fatorum di Enea, di Numa, dello stesso Augusto. E’ la qualità intrinseca che il primo Imperatore riconosce ad Alessandro Magno, quale Re (Svetonio, Vita dei Cesari, II – 18) e Deità incarnata, Amon – Ra nello specifico, a cui il Macedone era profondamente legato, quale iniziazione folgorante e saettante, di Apollo e di Ra, esprimenti la medesima valenza noetica, in connessione alla quale, la decisione imperiale di spostare al di fuori del Pomerium il culto di Iside è necessario che assuma tutta la giusta pregnanza ontologica.
In prossimità delle Feriae Augusti, nel mese in cui astrologicamente il Leone si manifesta come potenza ermeticamente uranica, Ottaviano, iniziato ai misteri di Demetra (Svetonio, Vita dei Cesari, II – 93), pose il Nume di cui era Adepto, Apollo, quale apoteosi ierofantica eleusina, al vertice della sua grande opera di restaurazione della religiosità romana. In prossimità dei Consualia, ricorrenza festiva dedicata a Conso, deità del buon raccolto, con funzioni molti simili alla greca Demetra, l’Astro Solare raggiunge la dimora di Heliodromos, il sesto grado dell’iniziazione mithriaca, in cui si consuma il pasto sacro, in cui la dimensione lunare ed isiaca viene superata (Cesare, Venere, Iside…). Ottaviano Augusto, infine, asse della storia di Roma, può essere considerato la realizzazione in vita dell’archetipo apollineo, il conoscitore teurgico del culto delfico, il mistagogo della Tradizione Patria, il suo astro lucente: “Una è la Legge o la Divinità, e chi la rappresenta è detto il Nume. Della Sapienza diva è questo il lume…” (G. Lebano, La Cantica dei Cantici, Edizioni Victrix, Forlì 2011, p. 11.).
Luca Valentini