Roma, 12 nov – Ricorrono quest’anno i 500 anni di una delle opere italiane più tradotte e conosciute, Il Principe, energico libello politico composto negli ultimi mesi del 1513 dal segretario fiorentino Niccolò Machiavelli.
Il destino di questo scritto sembra segnato fin nei primi anni da una sorta di timore. Si tratta di un’opera schietta, limpida ed elegante che non lascia spazio a concessioni morali o a illusioni di sorta. Se ancora oggi viene affrontata con tutti i distinguo del caso e nella ricorrenza dei 500 anni non viene ricordata con l’importanza che merita, forse un motivo c’è. Tra i pochi che l’hanno commemorata degnamente possiamo nominare Teodoro Klitsche de la Grange, che al fiorentino ha dedicato un interessante articolo sul problema del rapporto tra Costituzione e necessità (Behemoth n° 53), e lo storico francese Dominique Venner il quale, in uno degli ultimi articoli scritti prima di darsi la morte in Notre Dame de Paris, ha rievocato il fulcro mobilitante dell’opera machiavelliana: lo sprone a reagire contro la decadenza.
Il Principe è stato spesso citato a sproposito e all’autore sono state attribuite frasi e “massime” non sue, buone solo per i lettori superficiali o chi pensa di arricchire il proprio bagaglio culturale con qualche luogo comune (la celebre «il fine giustifica i mezzi»). In realtà una lettura attenta apre alla vastità di prospettive e alla profonda ricchezza dell’opera, che è ancor oggi vitale e stimolante, vista l’attuale situazione di crisi e decadenza non soltanto politica.
Chiarisce Hegel: «Il Principe si deve leggere avendo ben presente la storia dei secoli precedenti a Machiavelli, e quella dell’Italia a lui contemporanea: allora non soltanto il Principe sarà giustificato, ma esso comparirà come una grandissima e vera concezione, nata da una mente davvero politica che pensava nel modo più grande e più nobile» (Scritti politici, Einaudi).
Il quadro storico in cui opera Niccolò Machiavelli, e che lo spinge a tentare di influire con la sua opera negli eventi contemporanei, è quello dell’Italia a cavallo tra ‘400 e ‘500, una penisola fragile, disgregata e in cui campanilismi di vario genere la facevano da padrone. Francia e Spagna ebbero quindi facile gioco a spartirsi la debole preda, facendo affidamento non solo sulla forza militare, ma anche sul potere del denaro e sull’opportunismo dei signorotti locali. Il regista Ermanno Olmi ha magistralmente rappresentato quel momento storico nella pellicola Il mestiere delle armi, raccontando la vicenda dell’eroico condottiero Giovanni dalle bande nere. Peraltro nel film compare un significativo richiamo al Principe. In una situazione storica mutevole e di grande tensione per la penisola, Niccolò Machiavelli raccoglie le conoscenze frutto dell’esperienza personale e dello studio e le affida all’uomo che verrà, il principe che sarà la guida politica in grado di unificare l’Italia e condurla alla libertà governandola con virtù e realismo.
Il segretario fiorentino s’ispira quindi agli antichi e all’insegnamento della storia poiché, dice, gli uomini non mutano la propria vera natura nel tempo e perciò tendono a rifare errori ed azioni nello stesso modo, facendo sì che le cose si ripetano simili. Solo lo studio della storia e della natura umana possono mettere in guardia dal commettere gli stessi errori e garantire solidità allo Stato, massima espressione storica del potere sovrano e della comunità solidale.
È precisamente l’aderenza del segretario fiorentino alla «verità effettuale delle cose» ad aver creato qualche imbarazzo nei teorici della politica fondata sulla norma sovrana, i quali hanno immaginato sovra mondi ideali del tutto inadeguati non solo a comprendere la realtà, ma anche a rappresentarla e governarla. Per questo si sente oggi parlare di costituzioni immodificabili – quasi fossero le tavole della legge – o di patriottismo costituzionale, obbrobri di una politica che non è più tale ed ha perso il suo fulcro vitale, cioè la sovranità concreta. Sovranità che si esprime al massimo grado nella possibilità di decidere dello stato d’eccezione e di agire secondo necessità, superando cioè nell’azione politica persino il diritto.
Nel suo impegno per fornire al nuovo principe gli strumenti fondamentali Machiavelli redige quindi un sintetico ed efficace trattato di politica che desume dalla storia stessa gli esempi e gli insegnamenti chiave da tenere sempre a mente nella creazione e nel mantenimento di un regno solido e ben governato. Non esistono nelle pagine de Il Principe concessioni alla morale, al buonismo o a illusioni di sorta. L’autore mette in campo un pessimismo antropologico che mette a nudo senza troppe remore le componenti fondamentali dell’agire politico.
L’autentico politico deve essere in parte volpe e in parte leone. Deve cioè saper agire d’astuzia assecondando a suo vantaggio l’animo mutevole degli uomini. Ma dove non può bastare la capacità tattica e strategica di una mente lucida e preparata, allora viene il momento di fare ricorso alle armi e di trasformarsi da volpe in leone. E quindi il trattato, dopo aver descritto i vari tipi di regni esistenti e la cura che il regnante deve porre nel comprendere i bisogni dei sudditi, procede nella spiegazione di questa duplice natura del politico, fatta di diplomazia e forza militare.
Così Hegel: «Ma qui non ha senso discutere sulla scelta dei mezzi, le membra cancrenose non possono essere curate con l’acqua di lavanda. Una condizione nella quale veleno ed assassinio sono diventate armi abituali non ammette interventi correttivi troppo delicati. Una vita prossima alla putrefazione può essere riorganizzata solo con la più dura energia».
Machiavelli crede che le cose umane siano governate per una buona metà dalla Fortuna (fato, destino) ma che l’altra metà sia affidata alla virtù degli uomini. L’idea di virtù è da intendersi nel senso ampio romano antico – “operativo”, ma sempre fuori da ogni senso morale. È proprio nello spazio concesso alla libertà dell’uomo che va a collocarsi l’intento dell’autore, il quale alla ciclicità del tempo e al ritorno dei fatti storici affianca la possibilità di un atto sovrano che muti l’andamento delle cose.
Il Principe è un libro che nasce in un’epoca di crisi e d’incertezza, che osserva gli eventi dell’immediato passato per comprendere il presente e che raccoglie gli insegnamenti dell’antichità per aprire nuove prospettive sull’avvenire. Storia e mito in Machiavelli sono materia pulsante che trasmette linfa vitale all’operare politico. Persino nel “pessimista” Oswald Spengler si presenta la possibilità di una reazione alla decadenza: la condanna della civiltà al tramonto può mutare di segno nell’azione di quelli che il filosofo tedesco chiama “nuovi cesari”. Allo stesso modo, forse implicitamente, per Niccolò Machiavelli l’autentica azione politica nel frangente storico di degenerazione è la decisione, quel taglio sovrano che spezza il segmento fissato degli eventi e traccia un nuovo solco storico.
Hegel è chiarissimo a questo proposito: «l’opera del Machiavelli resta una grande testimonianza, che egli rese sia al suo tempo sia alla propria fede, che il destino di un popolo che precipita verso il suo tramonto politico possa essere salvato dall’opera di un genio».
Francesco Boco