Roma, 28 set – Giornalista, scrittore, fotografo, paracadutista, anche se probabilmente lui non vorrebbe descriversi in questo modo e soprattutto in questo ordine, Gianfranco Peroncini è da sempre uno dei più attenti e capaci osservatori delle evoluzioni geopolitiche mondiali e le sue analisi sono sempre degne di nota.
Nel suo ultimo lavoro “Il Podestà Forestiero” edito da Altaforte, Peroncini inizia a raccontare con rigore scientifico e grande lucidità le dinamiche che hanno portato all’introduzione della moneta unica. Uno studio che, per la sua complessità, non può limitarsi ad un solo aspetto quello geopolitico su cui è focalizzato questo libro, ma che comprende anche un’analisi economica ed una psico-sociale che verranno trattati nei prossimi volumi di quella che diventerà quindi una trilogia.
Alle origini dell’euro
Nella sua trattazione complessiva Gianfranco Peroncini parte da lontano, analizzando in profondità e collegando tra loro fatti che ad un osservatore poco attento parrebbero slegati, dallo sbarco in Sicilia della forza armate americane nel 1943, facilitato dall’appoggio della mafia a seguito dei primi accordi con i servizi segreti americani, passando per il memoriale di Aldo Moro, al divorzio tra ministero del Tesoro e la Banca d’Italia fino ad arrivare a quello che il filosofo tedesco Jürgen Habermas definisce un “quiet coup d’etat” un colpo di Stato tranquillo, silenzioso.
Un attacco allo Stato che passa “attraverso l’erosione distruttiva dei rapporti identitari e comunitari dei popoli, attraverso un’atomizzazione individualista di tutti i gruppi di base della società umana, culturali, professionali e familiari. Perché se l’obiettivo è distruggere lo Stato, i suoi regolamenti, la sua ontologica necessità di ridurre le diseguaglianze sociali, allora si capisce perché bisogna distruggere la famiglia e i suoi valori per annientare i diritti dei lavoratori e spezzare la schiena ai sindacati”.
Per l’autore l’euro diventa lo strumento principe di chi vuole una laminazione progressiva dello Stato, italiano e non solo, e della sua sovranità, a cominciare da quella monetaria, dunque non solo una questione prettamente economica ma “una lingua, una struttura di potere, una cultura. L’euro non è semplicemente una moneta ma anche, e soprattutto, un metodo di governo per imporre politiche neoliberiste nel segno dell’ablazione dei diritti sociali e dell’imposizione di un contropotere de-politicizzato dell’economia che scavalca il potere degli Stati sovrani, imponendo le laiche formule dogmatiche dell’ideologia mercatista. Per opporsi a quelli che temono come la peste il currency debasement, la svalutazione della moneta, ma si dimostrano estremamente tolleranti con il labour debasement, la svalutazione del lavoro. E dei lavoratori, intesi come ceto medio occidentale che accomuna impiegati ed operai”.
Il fallimento della tecnocrazia
Secondo Peroncini l’Europa sta vivendo “una drammatica crisi di legittimità politica il cui focus si definisce nel confronto tra la pseudo élite e il sistema di rappresentanza” e nella sua analisi centra in maniera ineccepibile il punto fondamentale ovvero che se si vuole delegare il potere politico ai tecnici, questi devono essere capaci, l’expertise ovvero la competenza tecnica deve essere reale, deve avere successo, ma la crisi del 2008 ha messo in evidenza il paradosso per cui “i tecnici dell’economia, quegli stessi che non sono stati capaci di anticipare o nemmeno di immaginare la possibilità di un tale collasso sistemico si sono riciclati e accreditati come le guide certificate per uscire dalla catastrofe. Come in Italia ben sappiamo”, con evidente riferimento al governo di Mario Monti.
“Il quadro desolante che oggi abbiamo di fronte, dalla crisi economica agli incontrollabili flussi migratori, dalle crescenti tensioni planetarie sino al drammatico e inesorabile fallimento sul piano ambientale, ha lasciato desolatamente nudi i nuovi mercanti del tempio. L’inadeguatezza a gestire la cosa pubblica da parte delle pseudo élite trova una lampante manifestazione negli affanni dell’euro. Visto che, economicamente parlando, la cosiddetta Unione Europea non è un’area valutaria ottimale nel senso che, riassumendo, non presenta flessibilità di prezzi e salari e una perfetta mobilità dei fattori di produzione. Quindi è stato assurdamente imposto a economie e strutture nazionali diverse e con regimi fiscali non collegati. Non a caso, sette premi Nobel per l’Economia di diversa formazione come Krugman, Stiglitz, Sen, Mirrlees, Pissarides e Friedman, hanno apertamente criticato l’Europa dell’euro”.
Il ruolo della Germania
Estremamente interessante e chiarificatrice è l’analisi storica dell’autore sul ruolo avuto dalla Germania in questo processo che ha portato alla moneta unica. “Nel 1945 la Germania era considerata finita per sempre come grande potenza, messa al bando dalla cerchia delle nazioni civilizzate a causa di accuse inespiabili, occupata da quattro eserciti, smembrata e divisa, con la minaccia sovietica sull’uscio di casa, grazie alla Guerra Fredda scorgeva miracolosamente una chanche insperata per uscire dal fondo della trappola in cui era finita. Perché un’Europa economicamente fragile, oltre a non costituire un appropriato mercato di sbocco per gli Stati Uniti, sarebbe stata preda di gravi tensioni sociali e quindi estremamente vulnerabile al richiamo dei partiti comunisti dell’Europa occidentale. Diventava necessario dimostrare che il capitalismo era in grado di aumentare e diffondere il tenore di vita dei cittadini, in palese contrasto con la squallida realtà d’Oltrecortina. Il Piano Marshall, ufficialmente denominato Piano per la ripresa europea, trae qui una parte importante della sua ragion d’essere. L’ossessione tedesca per le esportazioni rintraccia le sue origini in quegli anni della Guerra fredda e dalla necessità di una veloce rinascita per le necessità geopolitiche cui abbiamo fatto cenno. La causa si rintraccia nelle politiche degli Stati Uniti che hanno incoraggiato la Germania a crescere rapidamente e in maniera squilibrata, con un apparato industriale in grado di saturare oltre misura la domanda interna, con gli Usa e gli altri paesi disposti ad acquisirne il surplus e a difendere la capacità produttiva con opportune politiche protezionistiche“.
“Dopo la Seconda guerra mondiale, la strategia politica tedesca si è articolata intorno alla costruzione di strette relazioni economiche con il più ampio numero di paesi per facilitare le sue esportazioni, una dipendenza che la rende commercialmente forte ma anche ostaggio dei suoi stessi clienti. Tuttavia questi paesi non dipendevano direttamente dalla Germania e nemmeno si sentivano costretti a trattare con la Germania. E qui scatta il miracolo tedesco dell’euro. Secondo George Friedman, uno dei più accreditati esperti di geopolitica, gli strumenti messi in piedi dall’Unione Europea non sono stati altro che i mezzi con i quali la Germania è riuscita a tenere sotto controllo i membri della UE che consumavano il 50% di tutte le esportazioni tedesche.”
Vincitori e vinti
Ad ulteriore conferma delle sue argomentazioni Gianfranco Peroncini cita un interessante report del febbraio 2019 intitolato 20 Years of the Euro: Winners and Losers, prodotto da un ente tedesco il Centrum fur Europaische Politik, e quindi al di sopra di ogni sospetto dove viene evidenziato come i Paesi che più hanno promosso le politiche comunitarie di austerity sono quelli che hanno tratto maggior profitto dall’euro.
“Lo studio ha verificato quanto avrebbe raggiunto il Pil pro capite in assenza dell’euro, nel periodo dal 1999 (l’anno del debutto dell’euro sui mercati finanziari, anche se sarebbe entrato in vigore solo nel 2002) sino al 2017. Risulta che Germania e Olanda hanno estratto formidabili benefici dall’euro nei vent’anni successivi alla sua introduzione: i tedeschi e gli olandesi, grazie all’Eurozona, si sono arricchiti di oltre 20mila euro per abitante mentre per quasi tutti gli altri Stati membri la moneta unica ha rappresentato un drammatico freno alla crescita. In questo quadro, l’Italia vanta il dubbio merito di rappresentare il paese in cui la moneta unica europea ha prodotto più di ogni altro i maggiori effetti negativi. I numeri sono chiarissimi e impietosi. La Germania nell’arco dei 20 anni considerati ha guadagnato complessivamente 1.893 miliardi di euro, pari a circa 23.116 euro per abitante. Al secondo posto l’Olanda con un incasso di 346 miliardi e 21.003 euro pro capite. A seguire solo una tetra litania di dati sanguinosi. All’ultimo posto l’Italia con -4.325 miliardi di euro e 73.605 euro per ciascun abitante in meno“.
Il pensiero sovranista
Diventa impossibile condensare in poche righe le accurate analisi effettuate dall’autore in questo suo ultimo libro e questo breve articolo è frutto della lettura del testo e di una chiacchierata informale con lui, ma preme sottolineare come Peroncini non si limiti ad elencare e ad argomentare le cause e le dinamiche che hanno portato alla creazione della moneta unica e a tutto quello che ne è conseguito, ma provi a fornire delle soluzioni. Non possiamo a questo punto che evidenziare un ultimo passaggio del suo pensiero, che forse possiamo definire come la sintesi del pensiero sovranista:
“Una nazione, in quanto tale, è un gruppo di persone che condivide una storia, una cultura, una lingua, una rete di relazioni identitarie e una comunità di destino, determinate e circoscritte da un coerente spazio geografico. E su questa base che la nazione può diventare, oggi, la piattaforma necessaria a bloccare la deriva che porta la politica a trasformarsi inesorabilmente in un’ancella gregaria dell’economia, limitando l’esplosione di perniciose pulsioni materialistiche e il conseguente e inevitabile scollamento sociale. La nazione può, in altre parole, diventare il supporto organico per ristabilire legami e contatti tra le generazioni, tutte strettamente interdipendenti, riproponendo una partecipazione di popolo alla gestione della cosa pubblica”.
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Claudio Freschi