Roma, 3 ott – “Il laserpicium, che i Greci chiamano silfion, originario della Cirenaica, il cui succo si chiama laser, è ottimo per uso medicinale ed è pesato in denari d’argento”. Così lo storico romano Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, quella che potrebbe essere definita come la prima vera enciclopedia dell’umanità, definiva la leggendaria pianta citata nell’antichità. E’ uno dei prodotti da millenni più ricercati nel mondo mediterraneo; una pianta dai fiori dorati chiamata silfione. Per i medici Greci, il silfione era una pianta curativa e dai poteri straordinari, in grado di alleviare dolori allo stomaco, dare all’uomo energie anche per gli atti sessuali, e cicatrizzare o curare verruche. Per gli chef romani il silfio era però anche un alimento base, fondamentale per insaporire i piatti dell’epoca. Gli alberelli di silfio erano valutati allo stesso prezzo dell’argento. Nel corso degli anni di mandato di Caio Giulio Cesare, più di mille libbre della preziosa pianta furono addirittura immagazzinate insieme a oro e ricchezze nei tesori di Roma. Sette secoli dopo che la pianta fu documentata per la prima volta lungo le coste della Cirenaica, la moderna Libia, le fonti narrano che nel 638 a.C., una tremenda “pioggia nera” causò la scomparsa del silfio dal mondo antico. “È stato trovato un solo stelo – racconta nel I secolo d.C. Plinio il Vecchio nella sua Storia naturale – ed è stato dato all’imperatore Nerone”.
Un tesoro dal mondo antico
Con il passare dei secoli, la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio ha fatto scuola nelle epoche e, dal Medioevo, ispirati dagli antichi resoconti sul silfio, esploratori botanici l’hanno cercata ovunque senza mai più trovarne traccia. Molti storici hanno paragonato la scomparsa della leggendaria pianta all’avidità e alla ingordigia umana, capace di estinguere specie naturali dalla faccia della Terra. Quarant’anni fa, però, un professore dell’Università di Istanbul aveva affermato di aver ritrovato l’antica pianta più di mille anni dopo la sua scomparsa. Il ritrovamento annunciato dal professore sarebbe avvenuto quasi mille miglia dal luogo in cui il silfio cresceva in antichità. Nell’ottobre dello scorso anno, il professore Mahmut Miski si trovava ai piedi di un vulcano attivo in Cappadocia, regione della Turchia centrale. “Benvenuto nella ‘terra del silfio'”, ha esclamato il professore 68enne mentre si chinava ad estrarre uno stelo dal roccioso terreno di un boschetto di alberi di pistacchio selvatico. La pianta profumava l’aria con un gradevole profumo, leggermente medicinale, a metà tra l’eucalipto e la linfa del pino. “Per me, l’odore è stimolante, oltre che rilassante – ha spiegato Miski – Si può ben comprendere perché tutti coloro che incontrano questa pianta le si affezionano.”
La leggendaria pianta di Plinio
All’Università di Istanbul Miski studia i medicinali derivati da fonti naturali e vide per la prima volta la pianta 38 anni fa. All’epoca aveva ricevuto una borsa di studio per raccogliere esemplari di Ferula, un genere di piante da fiore che comprende carote, finocchio e prezzemolo, e ha la reputazione di essere curativa. In un giorno di primavera del 1983, due ragazzi di un piccolo villaggio della Cappadocia condussero Miski fino alle pendici del monte Hasan, dove la loro famiglia si guadagnava da vivere coltivando orzo e ceci. Dietro i muri di pietra che proteggevano le piante dal bestiame, i due fratelli mostrarono a Miski diverse piante di Ferula insolitamente alte, dagli steli spessi che trasudavano una resina dal sapore acre. Approfondendo lo studio sulla misteriosa pianta, il professore ha concluso che solo un altro esemplare di essa era stato raccolto. Era il 1909 e l’esemplare botanico fu allora trovato in un sito distante 150 miglia a est del monte Hasan, successivamente identificato come una nuova specie: la Ferula drudeana.
Le analisi dell’estratto di radice condotte da Miski hanno identificato 30 metaboliti secondari, sostanze che conferiscono alla pianta una sorta di vantaggio selettivo, sebbene non aiutino la riproduzione della stessa. Tra i composti, molti dei quali hanno proprietà antitumorali, contraccettive e antinfiammatorie, c’è lo shyobunone, elemento che agisce sui recettori dell’acido gamma-aminobutirico del cervello e dona alla pianta il suo particolare odore inebriante. Miski ritiene che le future analisi della pianta potrebbero rivelare l’esistenza di dozzine di composti di interesse medico ancora da identificare. “Le stesse sostanze chimiche si trovano nel rosmarino, nella bandiera dolce, nel carciofo, nella salvia e nel galbano, un’altra pianta di Ferula. È come se una mezza dozzina di importanti piante medicinali fossero racchiuse in un’unica specie“, ha affermato il professore.
Ferula drudeana o silfio?
Fin dalle prime ricerche, è emerso dunque che la Ferula drudeana aveva un grande potenziale medico, ma è stato solo durante il suo ritorno sul Monte Hasan nel 2012 che Miski ha iniziato a riflettere sulle sue somiglianze della pianta con il silfio che studiò nei vecchi testi botanici. I due giovani custodi del campo avevano raccontato al professore di come pecore e capre amassero pascolare intorno alle sue foglie. Questo particolare fece tornare alla mente del professore il racconto su Storia naturale di Plinio, dove le pecore adoravano il silfio. Miski osservò anche che dopo essere stati attratti dalla linfa color perla, gli insetti volanti iniziarono ad accoppiarsi, il che gli fece pensare a leggende che celebravano le qualità afrodisiache dell’antica pianta. Miski descrisse anche le somiglianze tra silphion, descritto nei testi antichi e raffigurato sulle monete cirenaiche per celebrare l’esportazione più famosa della regione, e la Ferula drudeana. Entrambe hanno infatti radici spesse e ramificate, simili al ginseng; foglie basali simili a fronde; un gambo scanalato che sale verso grappoli circolari di fiori; foglie di sedano; e frutti di carta a forma di cuori invertiti. La somiglianza estetica non era però l’unico collegamento convincente. Si dice che il silfion originale sia apparso all’improvviso, dopo un grande acquazzone. Miski osservò che, quando le piogge arrivavano in Cappadocia ad aprile, rinasce poi la Ferula drudeana, crescendo fino a sei piedi in poco più di un mese.
In antichità, i nobili cirenaici affidavano ai nomadi del deserto il compito di raccogliere la leggendaria pianta allo stato brado, strappandola direttamente senza ulteriori metodi. Ippocrate descrive due tentativi di trapianto del silfio nella Grecia continentale, ma entrambi fallirono. Anche Miski ha trovato la Ferula drudeana difficile da trapiantare. Lo studioso ha dunque provato la tecnica della stratificazione a freddo in una serra, un metodo in cui i semi vengono indotti a germogliare esponendoli a condizioni umide e invernali.
Un mistero lungo più di duemila anni
Mentre la Ferula drudeana si adatta alle antiche descrizioni del silfio, più da vicino di qualsiasi altra specie finora proposta, le stesse fonti greche o romane erano unanimi sul fatto che il miglior silfio provenisse esclusivamente da una ristretta zona nei pressi della città di Cirene. Oggi sull’antico è stato costruito il moderno insediamento di Shahat, in Libia. Le pendici del monte Hasan, invece, in linea d’aria si trovano a 800 miglia a nord-est, attraverso il Mediterraneo. Miski però, sottolinea il fatto che la pianta è stata registrata in due località della Turchia, entrambe con popolazioni greche storiche che risalgono all’antichità. Il villaggio in cui il professore trovò la pianta grazie ai due giovani fratelli, era abitato da greci della Cappadocia che popolavano l’Anatolia centrale ai tempi di Alessandro Magno. Dato che ci vogliono almeno dieci anni per maturare, gli antenati di queste terre potrebbero aver piantato il silfio per poi dimenticarsene in seguito ai burrascosi avvenimenti storici. La pianta potrebbe però aver continuato a crescere allo stato selvatico.
La globalizzazione che porta all’estinzione
Duemila anni dopo la scomparsa della pianta leggendaria, il silfio potrebbe quindi essere tornato con la Ferula drudeana; il problema, però, è che anch’essa rientra ufficialmente nelle specie in pericolo di estinzione. Senza andare a scomodare strampalate ipotesi dei soliti catastrofisti climatici, seguendo le tracce della storia, oltre ai mutamenti urbanistici e sociali del suolo natìo, il nemico più pericoloso di questa leggendaria e magica pianta potrebbe essere, a distanza di millenni, sempre lo stesso: l’ingordigia umana. Oggi accentuata dagli irresponsabili processi legati al mercato globalizzato, anche l’estinzione di specie vegetali e della loro purezza rischia di sconvolgere gli equilibri di Madre Natura. Se da una parte i prodotti ibridi, mischiati tra semi, terreni e climi diversi, può portare a soluzioni contro una irreversibile fame in alcune zone del mondo, dall’altra mette però a rischio la stessa sopravvivenza di piante che accompagnano l’uomo dall’alba dei tempi e che potrebbero portare lo stesso a riscoprire non poche potenzialità in ambito tanto culinario, quanto soprattutto curativo.
Andrea Bonazza