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Dominique Venner: “All’Europa serve una metafisica della memoria”

by La Redazione
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Roma, 21 mag – In questo stesso giorno, quattro anni fa, Dominique Venner si dava la morte a Notre Dame. Per ricordarne la figura, il suo sito ufficiale ha ripubblicato oggi l’editoriale del numero 40 della Nouvelle Revue d’Histoire, datato gennaio 2009. Lo traduciamo qui di seguito, per dare anche il nostro contributo al ricordo di quel gesto tragico ma fondativo. [IPN]

“Memoria” è una parola che ha sofferto per il troppo utilizzo. Ma, con il pretesto che la parola “amore” è stata usata in tutte le salse, bisogna forse smettere di usarla in senso pieno? Vale lo stesso per la “memoria”. È grazie al vigore della sua “memoria”, trasmessa in seno alle famiglie, che una comunità può attraversare il tempo, a dispetto degli accidenti che tendono a dissolverla. È grazie alla loro lunga “memoria” che i cinesi, i giapponesi, gli ebrei e tanti altri popoli devono aver superato pericoli e persecuzioni senza mai scomparire. Per loro sfortuna, a causa di una storia interrotta, gli europei ne sono stati privati.

Pensavo a questa carenza della memoria europea proprio mentre degli studenti mi avevano invitato a parlare dell’avvenire dell’Europa e del mio libro “Il secolo del 1914”. Ogni volta che la parola Europa viene pronunciata, sorgono degli equivoci. Alcuni pensano all’Unione europea, per approvarla o criticarla, per esempio per rimpiangere che essa non sia una “potenza”. Per dissipare ogni confusione, preciso sempre che lascio da parte la questione politica. Rapportandomi al principio di Epitteto su “ciò che dipende da noi e ciò che non dipende da noi”, io so che dipende da me fondare la mia vita sui valori originari degli europei, mentre cambiare la politica non dipende da me. So anche che, senza idee animatrici, non esiste azione coerente.

Questa idea animatrice si radica nella coscienza dell’Europa-civiltà che annulla le opposizioni tra regione, nazione, Europa. Si può essere allo stesso tempo bretoni o provenzali, francesi e europei, figli di una stessa civiltà che ha attraversato le epoche a partire dalla prima cristallizzazione perfetta che furono i poemi omerici. “Una civiltà – diceva eccellentemente Fernand Braudel – è una continuità che, quando cambia, anche molto profondamente come può implicare l’arrivo di una nuova religione, si incorpora in valori antichi che sopravvivono attraverso di essa e che restano la sua sostanza”. È a questa continuità che noi dobbiamo il fatto di essere ciò che siamo.

Nella loro diversità, gli uomini esistono solo attraverso ciò che li distingue – clan, popoli, nazioni, culture, civiltà – e non attraverso la loro animalità, che è universale. La sessualità è comune a tutta l’umanità quanto la necessità di nutrirsi. In compenso, l’amore così come la gastronomia sono proprie di ogni civiltà, cioè di uno sforzo cosciente sulla lunga memoria. L’amore così come lo concepiscono gli europei è già presente nei poemi omerici attraverso i personaggi di Elena, Nausicaa, Ettore, Andromaca, Ulisse o Penelope. Ciò che si rivela attraverso questi personaggi è del tutto differente da ciò che mostrano le grandi civiltà dell’Asia, la cui raffinatezza e beltà non sono peraltro in discussione.

L’idea che ci si fa dell’amore non è affatto più frivola del sentimento tragico della storia e del destino che caratterizza lo spirito europeo. Essa definisce una civiltà, la sua spiritualità immanente e il senso della vita di ciascuno, allo stesso titolo dell’idea che ci si fa del lavoro. Quest’ultimo ha il solo fine di “farci fare soldi”, come pensano oltre Atlantico, o ha per scopo, pur assicurando una giusta retribuzione, di farci realizzare mirando all’eccellenza, anche in compiti in apparenza triviali, come la cura della casa? Questa percezione ha condotto i nostri avi a creare sempre più bellezza, tanto nei compiti più umili che in quelli più nobili. Esserne cosciente, significa dare un senso metafisico alla “memoria”.

Coltivare la nostra “memoria”, trasmetterla in modo vivente ai nostri bambini, meditare anche sulle prove che la nostra storia ci ha imposto, è ciò che è preliminare a ogni rinascita. Di fronte alle sfide inedite che ci sono state imposte dalle catastrofi del secolo del 1914 e alla loro mortale demoralizzazione, noi troveremo nella riconquista della nostra “memoria” etnica delle risposte di cui i nostri padri e i nostri antenati non avevano idea, loro che vivenao in un mondo stabile, forte e protetto.

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