Roma, 24 mar – Se la questione del debito nei confronti della Cina era uno dei timori alla vigilia della visita di Xi Jinping a Roma, con la firma del Memorandum per la Nuova Via della Seta tutto ciò diventa realtà. E aggiunge al quadro anche un ulteriore, problematico tassello relativo alla piaga delle delocalizzazioni produttive.
Ecco i Panda Bond
Tra i vari accordi sottoscritto, uno in particolare riguarda operazioni di natura industrial-finanziaria. Si tratta dei cosiddetti “Panda Bond“, obbligazioni che Cassa Depositi e Prestiti potrà emettere fino a 5 miliardi di renmimbi (vale a dire 650 milioni di euro) e destinate al supporto di aziende italiane che operano nel Paese.
La prima particolarità riguarda la moneta in cui i Panda Bond verranno emessi. Nonostante siano destinati ad aziende italiane, saranno denominati in valuta cinese. E qui già si accende un campanello d’allarme, perché se è vero che ci stiamo già indebitando in una moneta estera (l’euro) con tutti i noti problemi di sostenibilità per le nostre finanze pubbliche, allora cambiando la natura dei fattori il risultato non cambia.
Sul breve termine, insomma, le obbligazioni “cinesi” posso garantire un’importante fonte di liquidità. Ma essendo di fatto controllate dalle scelte della banca centrale cinese in termini di politica monetaria, eventuali problematiche sul medio e lungo termine potrebbero comportare un’ulteriore restringimento della nostra sovranità economica.
Delocalizzazioni con garanzia pubblica?
La seconda fonte di preoccupazione riguarda le attività che le obbligazioni andranno a sostenere. I proventi derivanti dalle emissioni verranno infatti utilizzati per finanziare aziende italiane con sede in Cina, con l’obiettivo di supportarne la crescita. Un concetto che racchiude tutto e il contrario di tutto: dallo sviluppo del mercato interno cinese alle delocalizzazioni produttive.
L’ipotesi più probabile, al momento, è che Cdp – controllata dal ministero dell’Economia, quindi con alle spalle la garanzia statale – si avvarrà delle sue due controllate Sace e Simest per distribuire i fondi raccolti. E non è un mistero che, già in passato, queste due realtà abbiano finanziato – entrambi gli statuti delle società, ad una lettura attenta, lo consentono – attività di delocalizzazione produttiva. Non più tardi del 2014, ad esempio, Sace aveva stanziato una linea da 2 miliardi di euro dedicata a chi opera o intende operare in Cina. Cosa garantisce dunque che anche a questo giro non avvenga la stessa identica cosa?
Filippo Burla
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