Roma, 14 mag – Dall’inizio della crisi gli italiani hanno perso l’8,7% del proprio reddito disponibile. Una performance che ci pone terzultimi in Europa, con solo Cipro e la Grecia a fare peggio di noi. Questa la fotografia scattata in un rapporto su dati Eurostat pubblicato oggi dal Centro studi Impresa Lavoro.
Crollo del reddito
Il periodo preso in analisi va dal 2008 al 2017, gli anni più duri della crisi economica esplosa dopo la bolla dei mutui subprime. Una crisi che, all’interno dell’architettura Ue, si è ulteriormente aggravata a causa delle imposizioni comunitarie passate alla storia come austerità.
Il risultato è stato il crollo verticale del potere d’acquisto, che segna risultati analoghi a quelli già analizzati dal centro studi lo scorso ottobre quando veniva evidenziata una perdita dell’8,4% pro capite, 2.400 euro a cittadino. E si aggiunge al già consistente calo del 20% registrato dal 1991 al 2010, con il reddito medio degli italiani sceso da 37mila a 29mila euro.
Di questo passo, osserva il presidente del centro studi Massimo Blasoni, “gli italiani recupereranno il potere d’acquisto che avevano prima della crisi economica solamente nel lontano 2026”.
Fuori dall’euro crescita record
Drammatica la situazione della Grecia, i cui cittadini hanno dovuto fare i conti con un 30% di reddito disponibile. Dimezza la perdita Cipro, che fa registrare “solo” -15%. Sopra di noi tutta l’Europa a 28, che fa registrare una crescita globale del +3,4%.
La media rischia però di essere fuorviante. Scendendo nel dettaglio delle cifre è infatti possibile notare come, ad eccezione della Croazia, chi si trova in territorio negativo sono tutte nazioni che adottano l’euro. Ancora più nello specifico, impossibile non notare la presenza di quelli più assoggettati all’esperimento dell’austerità imposta da Bruxelles, come nei casi, oltre che di Grecia e Italia, anche di Spagna e Portogallo. Diverso il discorso per chi invece è in terreno positivo, dove troviamo sì membri dell’eurozona, anche se i Paesi sul podio (Bulgaria, Romania e Polonia che fanno segnare, rispettivamente, +30, +28 e +24,8%) e ben 6 dei primi 10, pur aderendo all’Ue, non sono entrati nella moneta unica. Né, in molti casi, sembrano aver intenzione di farlo.
Filippo Burla