Roma, 27 dic – Galeotto fu il patto di stabilità interno, meccanismo pensato per far concorrere le amministrazioni locali alla riduzione dell’indebitamento statale. Con scarsi effetti, a ben vedere la dinamica sempre in crescita del debito pubblico. Con il risultato, peggiorativo, di bloccare quegli enti decentrati cosiddetti “virtuosi” nei loro investimenti, anche qualora non fossero a corto di disponibilità liquide pronte all’uso. E così i comuni –quindi principalmente i sindaci, ma senza escludere i presidenti di provincia e governatori regionali– hanno dovuto arrangiarsi per evitare la classica impossibilità di sistemare le buche nelle strade.
Serviva un modo per veicolare risorse al di fuori del patto di stabilità e fu trovato nella costituzione di società per azioni a intero controllo pubblico per il tramite delle quali far transitare i miliardi di euro di investimenti bloccati. Certo non solo per questo, come le cronache amano sottolineare nei casi di assunzioni “fuori patto”: le classiche clientele elettorali che resistono anche ai più spietati tagli lineari di spesa. Ciò non toglie che l’idea di fondo –e cioé far ripartire la macchina della politica economica locale– mantiene comunque una sua validità. Secondo una recente inchiesta di Confindustria le partecipazioni ammontano a circa 40mila, per un totale di quasi 8mila società controllate su più livelli: «L’onere complessivo sostenuto dalle Pubbliche amministrazioni per il mantenimento di questi organismi è stato pari complessivamente a 22,7 miliardi, circa l’1,4% del Pil. Si tratta di cifre consistenti che meritano attenzione».
La stessa Confindustria che chiede l’intervento dello Stato in Monte dei Paschi, con l’altra mano si affretta invece a puntare il dito contro la ritrita questione del pubblico che si vuole strutturalmente inefficiente. Parzialmente smentendosi nello stesso documento, peraltro: «Il 7% degli organismi partecipati ha registrato perdite negli ultimi tre anni consecutivamente con un onere a carico del bilancio pubblico che è stato pari a circa 1,8 miliardi. Sono numeri straordinari che il Paese non può permettersi». Curiosa e pericolosa un’affermazione del genere nel periodo attuale. La spesa pubblica infatti, produttiva o meno che sia, è parte integrante del Prodotto interno lordo. A sua volta quindi componente essenziale del rapporto debito/Pil che tanti sonni disturba. In secundis: non è eccessiva approssimazione dire che queste cifre possono verosimilmente essere ribaltate anche nel privato. Sarebbe sufficiente per richiedere una nazionalizzazione totale di ogni settore? Domanda retorica, ma il rapporto deve valere in entrambe le direzioni. Considerando inoltre che, accanto ad enti forse superflui, all’interno della “holding Stato” sopravvivono partecipazioni importanti e che sono le prime per capitalizzazione a Piazza Affari. A segnalare per l’ennesima volta, di fronte alle capacità mai sviluppate in più di 150 anni del capitale privato, che il pilastro pubblico riveste ancora una funzione essenziale.
Filippo Burla