Roma, 21 lug – La questione migratoria è da tempo al centro del dibattito politico nazionale, tanto da aver giocato un ruolo non secondario nel provvisorio stop allo ius soli deciso dal PD, nelle recenti affermazioni elettorali del centro-destra e nelle eclatanti proteste di alcune comunità umane e politiche italiane alle prese con l’«accoglienza». Per affrontare adeguatamente la questione occorre partire dai numeri, come ha fatto Daniele Scalea nel report «Come l’immigrazione sta cambiando la demografia italiana» pubblicato per il «Centro Studi Machiavelli». Basandosi su dati e statistiche Istat e Eurostat, Scalea ha messo in evidenza tutti gli snodi centrali di una questione centrale per il futuro della penisola e non solo. I primi dati che saltano agli occhi lasciano intendere cambiamenti epocali: l’età media in Europa è passata da 28,9 anni nel 1950 a 41,6 anni nel 2015, e se nel 1950 il Vecchio continente ospitava il 21,7% della popolazione mondiale, oggi siamo intorno al 9,8%.
A questo pauroso invecchiamento fa da contraltare l’esplosione demografica africana, che è secondo l’autore la causa principale della crisi migratoria, come dimostra la bassa percentuale di richiedenti asilo proveniente da zone di guerra (14%). La crescita è tale che si stima che il peso mondiale della popolazione africana sarà del 40% a fine secolo. L’Italia ne sarà sicuramente investita, considerando in più la bassa natalità (siamo passato da un tasso di fertilità per donna del 2,7 del 1964 all’attuale 1,5) e una delle popolazioni più vecchie del mondo dopo Germania e Giappone. Un’elaborazione dei dati Istat porta a prevedere nel 2065 un 40% di immigrati tra prima e seconda generazione presenti nel paese. «Se pensiamo che solo nel 2001 la percentuale di stranieri residenti in Italia ha superatola soglia del 1%, ci si rende conto della rapidità estrema del processo in atto; che per velocità e magnitudine non ha eguali nella storia della nostra penisola. A cambiare è stata anche una delle peculiarità, fino a ieri, dell’immigrazione in Italia: ossia la frammentazione delle provenienze, che preservava da quanto occorso altrove in Europa, vale a dire la formazione di comunità chiuse e omogenee poco integrate con la società ospite. Negli anni ‘70 le prime dieci nazionalità rappresentavano il 12,8% degli immigrati, mentre oggi il loro peso supera il 64% del totale», rileva Scalea.
Dinamiche simili riguarderanno molti altri paesi europei: nel 2065 l’etnia britannica potrebbe diventare minoritaria nel Regno Unito, mentre per quanto in Francia sia proibito compilare statistiche etniche, si stima che nell’Esagono già oggi gli immigrati di prima e seconda generazione siano più del 20%. Per fare un altro esempio, in Germania il 36% dei bambini sotto i 5 anni è figlio di immigrati. Non è poco: nella storia del nostro continente non si ravvisano fenomeni paragonabili. Si prendano ad esempio le invasioni barbariche che disfecero l’Impero Romano d’Occidente e inaugurarono una nuova civiltà ibrida, romano-germanica, e segnarono una svolta epocale, dall’Antichità al Medioevo: gli storici ritengono che i nuovi arrivati non raggiungessero numericamente il 5% della popolazione indigena; e il loro afflusso fu distribuito nell’arco di un secolo. Senza negare drammi e difficoltà insiti nella crisi migratoria, a questo punto il fenomeno deve essere affrontato con coscienza e serietà da parte delle classi dirigenti politiche, sempre più timide in Europa. Scegliere tra l’approccio diritto-umanista e “antirazzista” promosso dalle elites culturali, dalle ONG e dalla finanza o tra un’impostazione più tradizionalista, decisa e legata ai «confini» (tipica ad esempio dei paesi dell’Europa orientale) avrà conseguenze che si riverbereranno nel corso di generazioni.
Agostino Nasti
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