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New Balance, una scarpa storica divenuta bersaglio del politicamente corretto

by La Redazione
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New Balance e politica

Roma, 1 mag – Un uomo alla periferia di Boston se ne sta affacciato alla finestra. E’ il 1906. L’industria cresce, le scoperte scientifiche si avvicendano, le avanguardie esplorano l’arte, la pace perdura fra le nazioni e Milano ospita l’Esposizione Universale. Entusiasmi ed energie per un secolo da fare.

New Balance, la storia e il successo

L’uomo ha un’età significativa, trentatrè anni, e davanti ai suoi occhi, una gallina razzola nel giardino di casa. Si chiama William J. Riley ed è della sua gallina che si tratta quando parliamo del successo con cui passerà alla storia. Osservandola, un concetto gli sovviene sotto forma di una accoppiata di parole: nuovo equilibrio. Ovvero New Balance. E un progetto da realizzare, quello del perfetto comfort nella scarpa da tutti i giorni. Allora Mr. Riley corre a chiedere un prestito in banca e fonda la New Balance Arch Support Company. Qui produrrà plantari dal design all’avanguardia, quando ancora un’industria delle sneakers è lontanissima a venire. Ha depositato il brevetto di una soletta con tre punti d’appoggio, ispirata ai tre artigli nella zampa della gallina, segreto di una New Balance. I costi di produzione non gli permettono di dare al pubblico un prodotto che vada sotto i 5 dollari, il che non è poco considerando che con la stessa cifra si sarebbe acquistato un paio di scarpe vere e proprie. Né vuol fare affidamento su una campagna pubblicitaria, per il suo budget di partenza limitato.

Si reca egli stesso a proporre il prodotto porta a porta, rivolgendosi a quelle categorie di lavoratori costrette a passare molte ore in piedi, poliziotti, pompieri e commessi di store. Chi viene in ufficio per siglare il contratto di una fornitura, nota in bella mostra un calco di zampe di gallina sulla scrivania. Quelle zampette gli offrono lo spunto per argomentare sull’idea originaria, cosa che chiaramente lo inorgoglisce e nutre le prospettive del suo sogno americano. Continua così fino a metà degli anni Trenta, poi, alla soglia dei suoi sessanta, si stanca di girare tutta la metropoli come un ambulante, e assolda un commesso di nome Arthur Hall, che finisce per diventare suo indispensabile socio in affari. Dopo le Olimpiadi del 1936, con l’attenzione mediatica esplosa sull’atletica grazie al genio della cineasta Leni Riefenstahl, i due sono pronti a immettere sul mercato la prima scarpa. Suola chiodata per l’aderenza su pista e morbida tomaia in pelle di canguro. Non compare ancora la N che oggi la contraddistingue su ambo i lati, ma l’etichetta interna riporta, oltre a un orgoglioso Made in Usa, l’avviso per un rimborso in caso di cliente insoddisfatto. Nella fase iniziale della Seconda Guerra Mondiale, prima che gli americani siano chiamati in massa al fronte, il marchio di Boston inizia a espandersi nei settori della boxe, del tennis e dello stesso baseball.

Con l’Olimpiade romana del ’60, che vede l’etiope Bikila vincere la maratona a piedi nudi, la figlia di Riley, ormai passato a miglior vita, realizza nello scantinato di casa il prototipo di una scarpa con suola in gomma sigrinata. Un Occidente che non potrà mai eguagliare lo splendore di un maratoneta africano scalzo, avrà comunque modo di indossare le Trackster, così leggere da non sentirle ai piedi. Si tratta delle prime scarpe da corsa per un pubblico non professionista. L’azienda, rinominata New Balance Orthopedic Laboratory, onde venire incontro alla tipologia di ogni piede, inaugura un innovativo tipo di numerazione, variabile tanto nella misura della lunghezza quanto della larghezza. E’ il boom economico, USA e URSS ai ferri corti, e sempre più americani hanno preso a fare jogging. Sono però gli anni Settanta a far crescere ulteriormente il brand, che ancora si basa sulla filosofia del passaparola invece che delle campagne pubblicitarie, e che consta di un ministabilimento con sei operai i quali realizzano una trentina di scarpe al dì.

Spartiacque il titolo che la rivista specializzata Runner’s World conferisce alle M320, modello di migliori running shoes dell’anno 1976, lì dove compare finalmente quella N che farà infuriare i sinistroidi dei nostri giorni, ma a questo arriviamo fra poco. Seguono i successi delle 620, delle 420, delle 670, delle 990 che sforano l’impensabile tetto dei 100 dollari – le preferite di Steve Jobs – e delle 1300, che costano anche più. La sigla di ogni modello, consistendo da tradizione in un asettico numero a più cifre, è scelta in controdentenza rispetto alle marche che, con salti mortali di marketing, seducono l’acquirente coi nomi esotici e roboanti, Gazelle, Pegasus, Onituka Tiger, Air Max. Ma è sul finire degli anni ’80 che la New Balance raggiunge l’equilibrio del prodotto ideale (modello 574), capace, per le caratteristiche di freschezza e comodità, accessibilità nel prezzo e profilo basso, di uscire dalla nicchia dei patiti del settore. Sneaker a regola d’arte, amata dalla generazione di Young Urban Professionals – vedi yuppies – che presero a calzarla nel tempo libero, è questo l’evergreen che, tuttora riproposto a citare i colori e la spensieratezza di quella bella decade, si osserva di più in giro. E che diviene argomento di discussione per quelle categorie di stipendiati dal radical-sciocchismo (sociologi, antropologi, psicologi, maître à penser) a cui piace spalmare etichette a destra e mai a manca – più a destra che a manca.

Un marchio “politicamente scorretto”

Del resto, da un po’ si va assistendo ai tentativi di mettere all’indice del gusto comune alcune marche, associandole, a mezzo di anatema, a gruppi etichettati come right wing. Il britannico The Guardian titoleggia The white polo shirt: how the alt-right co-opted a modern classic, annotando come la polo bianca, introdotta negli US Open del ’26 da René Lacoste, sia oramai diventata appannaggio di una certa frangia della destra americana. Prosegue il Washington Post, che con la critica di moda Robin Givah, lancia un accorato appello: “l’industra della moda dovrebbe dire qualcosa”. Gli fa eco Vice, per cui orde “di nuovi estremisti”, dismessa la tenuta da picchiatori, ora cercano “di mimetizzarsi, rivendicando un posto nel panorama mainstream”.

Riviste quali Rolling Stone, l’Internazionale, GQ, Topic, passano a veri elenchi di tshirt, pantaloni, cappellini, giubbotti, dove le sneakers di Boston hanno ormai sostituito, nell’immaginario conformista, gli anfibi Dr. Martens. Come a dover istruire il moderno fan à la page del pensiero globalista. Così moderno e globalista da necessitare di un vademecum sull’altrui abbigliamento affinché, se incontra qualcuno vestito di Fred Perry e NB, gli stia alla larga in ogni angolo del globo. E se il marchio del tre volte campione britannico a Wimbledon già era sopravvissuto indosso al mod dei ’60, al punk dei ’70, allo skinhead dei ’90, nulla ha potuto contro l’ennesima indignazione montata su carta e web, con la Fred Perry costretta, lo scorso anno, a ritirare la storica versione della polo nero-gialla dal mercato statunitense, perché indossata da quei ceffi dei Proud Boys di Trump. Quanto alle New Balance, viste ai piedi degli stessi Boys nell’ultima campagna per le presidenziali Usa, rischiavano di fare una eguale fine.

Cosa che non è avvenuta nonostante l’offensiva mediatica del giornale unico, con la sociologa Cynthia Miller-Idriss che arrivava a denunciare, nell’emblema della N stilizzata dal designer Heckler, un croceuncinato quanto improbabile riverbero. Odio giurato, quello degli alfieri del politically correct per New Balance. Matrice della faida, al tempo della prima vittoria trumpiana, un tweet del portavoce aziendale, il quale si era permesso una critica alla politica pro globalizzazione dell’amministrazione uscente, responsabile d’aver penalizzato le industrie sul territorio statunitense – di cui ben cinque all’attivo per i bostoniani – a mezzo del trattato Trans Pacific Partnership. “Barack Obama è rimasto sordo alle nostre richieste e, francamente” – faceva quel tweet – “col presidente Trump sentiamo che le cose andranno per il verso giusto”. Tanto bastava per arrivare a declassare la New Balance a rango di brand da suprematisti bianchi, bigotti e reazionari. Allora, nella land of the free, avevamo osservato come la stravaganza multipervertita dell’universo Democratic-LGBT-BLM-Antifa potesse innalzare roghi, per nulla virtuali, su cui dare alle fiamme le sneakers più odiate di sempre. Momentaneamente in stand by, attendiamo di vederne accendere di nuovi per il futuro. Quello in cui Donald Trump ha già promesso di riprendersi, entro l’anno in corso, Camera e Senato, primo passo per la riconquista della Casa Bianca sbandierata per il 2024. Chissà. Magari “il più rozzamente vistoso degli yuppies” – così Il Fatto Quotidiano etichettava Trump – potrebbe rispolverare, sotto il completo blu, il vecchio paio di New Balance che portava negli anni ’80…

Alessandro Staderini Busà

 

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