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Stellantis, la sinistra in piazza. Peccato sia parte del problema… 

by La Redazione
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Roma, 18 ott – Sinistra in fermento sul caso Stellantis. Con l’odierno corteo che si svilupperà lungo le vie della capitale fino a piazza del Popolo, sindacati e opposizione – da Conte alla Schlein, da Fratoianni a Calenda – intendono protestare contro le politiche industriali della multinazionale automobilistica con sede in Olanda. Previsto l’arrivo di lavoratori da tutto lo stivale, presenti – insieme a trent’anni di distanza dall’ultimo sciopero unitario – le sigle del settore metalmeccanico: a pensar male si fa peccato, ma (forse) c’è voluto un governo di destra per riunire Fiom, Fim e Uilm. 

Un settore in piena crisi: i numeri

Battute a parte, il fine è nobile. Sotto al motto “L’Automotive merita di più” si manifesterà anche in altre piazze d’Italia – Torino, Bari e Napoli le più importanti – per difendere l’occupazione e rilanciare il futuro dell’industria dell’auto nel nostro paese. Le piazze chiederanno “urgenti risposte da parte dell’Unione Europea, governo, Stellantis e aziende della componentistica”. Tutto giusto fin qui, anche perché i numeri di un settore in piena crisi parlano chiaro.  

Il gruppo nato quasi quattro anni fa dalla fusione tra Fiat Chrysler e Psa ha messo sul mercato in tutto il 2023 un totale di 751 mila prodotti finiti (per un 30% trattasi di veicoli commerciali). Più in generale negli ultimi tre lustri l’organizzazione produttiva italiana – Fiat, poi Fca e ora Stellantis – ha registrato un calo  del 70%. Le stime attuali parlano addirittura di 300 mila unità. 

Cifre che vengono confermate da un recente studio della Cgia di Mestre. Secondo l’analisi, nello scorso mese di luglio il mercato europeo dell’auto si è praticamente fermato: qui a maggior ragione rientra il problema dell’indotto, in quanto la nostra filiera della componentistica (piccole e medie imprese) rifornisce una buona parte di questo particolare segmento continentale. Tornando a Stellantis, la quota di mercato sarebbe diminuita di quasi un punto percentuale.

Caso Stellantis: le forzature dell’ambientalismo

I motivi della protesta, lo abbiamo scritto poco sopra, sono condivisibili. Peccato che tra le numerosissime firme e i diversi volti noti che oggi saranno nella Città Eterna, in tanti negli ultimi anni abbiano cavalcato quella che possiamo definire come moda ambientalista. Il ritornello è noto: il cambiamento climatico va imputato in toto all’uomo occidentale. Colpevole, appunto, di contribuire al surriscaldamento globale anche macinando chilometri con mezzi a benzina e diesel

Sospinto soprattutto dall’opinione pubblica, anche il settore automobilistico ha provato a cavalcare l’onda. Peccato che – almeno nel nostro paese – il mercato non fosse ancora pronto (a dirla tutta non lo è nemmeno oggi) per un cambiamento così epocale. Soprattutto perché, parliamoci chiaro, senza energia nucleare l’elettrificazione del trasporto rimane in termini pratici pura utopia.

Delocalizzazione e partecipazione dei lavoratori

Ed è qui che casca un altro falso mito di certa sinistra (e certa destra, se vogliamo dirla tutta). È il mercato, bellezza: quando una realtà imprenditoriale entra in crisi, si tagliano i costi. Come? In questo sistema economico dove lo Stato è ridotto ad esattore delle tasse la prima legge non scritta del Capitale sovranazionale si chiama delocalizzazione.

Ecco, a dirla tutta una via d’uscita ci sarebbe: avete mai visto un lavoratore che licenzia se stesso? “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”. Se è vero che fino ad oggi l’articolo 46 della Costituzione è rimasto lettera morta, l’antidoto all’inverno imprenditoriale, alla grande fuga produttiva verso paesi dove la manodopera costa (molto) meno continua a rispondere al nome di partecipazione

Eppure, in un periodo non così lontano, la socializzazione delle imprese era diventata realtà. Chissà se i promotori del grande sciopero romano di oggi si sono chiesti il perché il Cnl abbia avuto così tanta fretta ad abrogare il relativo decreto legislativo

Cesare Ordelaffi

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