Roma, 19 lug – C’è una cosa che Gad Lerner dimentica di dire quando, sul suo blog, lancia la fatwa antirazzista contro i comitati che innalzano il tricolore sulle barricate anti-immigrazione: che quella bandiera, quei cittadini, sono andati a raccoglierla per terra. È lì che il tricolore era stato gettato dalle élite di questa nazione, che fanno dell’odio del proprio popolo e della propria storia un marchio di fabbrica. E Gad Lerner non fa certo eccezione, anche se oggi vuole improvvisarsi vigilantes dei simboli. Lui che non ha mai sventolato un tricolore, ora vorrebbe sindacare su chi può o non può farlo. Si tratta di una reazione a un fenomeno che si vuol esorcizzare: la fame di simboli nazionali che da tempo si innerva nella rabbia degli italiani. Dall’effimera e confusa rivolta dei forconi allo slancio emotivo che accompagna la questione dei marò, dall’eco mediatica del notaio milanese che espone il tricolore contro gli antifascisti ai comitati in lotta contro il caos scientemente portato nei quartieri: esiste, un po’ ovunque nel paese reale, una tensione verso la nazione un tempo impensabile. Come se in mezzo a una crisi economica sterminata, di fronte all’espropriazione della sovranità, nel mezzo del crollo dello Stato, la bandiera fosse l’ultimo punto fermo a cui aggrapparsi. Per Lerner e soci, questo è ovviamente incomprensibile e va respinto razionalmente con il teorema della trama nera. Una reazione neo-antifascista che nasce dalla distanza dal popolo e che dal popolo porta ancor più lontani, perché appare ai più come un irrigidimento moralistico e onanistico di una casta intellettuale autoreferenziale. Ma la storia lo insegna: quando ti portano via tutto ti resta in mano solo la tua storia e i tuoi simboli. E quando te ne accorgi incominci a sventolarli. Senza chiedere il permesso.
Adriano Scianca
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