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Non è ancora il tempo di un mondo post-europeo. Almeno per noi…

by Marco Battistini
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Roma, 9 gen – Gigante burocratico e nano politico, il Vecchio Continente – oggi rappresentato dall’elefante amministrativo che porta il nome di Unione Europea – sembra non passarsela benissimo. Si è occupato della questione qualche giorno fa il Wall Street Journal: “Le nazioni si preparano al mondo post-europeo” titolava infatti nel giorno dell’Epifania il famoso giornale newyorkese, quotidiano a maggior diffusione negli Stati Uniti. Il pezzo, tradotto in italiano dai tipi di totalitarismo.blog, già dall’inquietante – ma veritiera –  introduzione (“Trump riconosce che l’Europa ha abdicato al suo ruolo nella storia”) ci offre spunti davvero interessanti.

Il punto di vista americano

Innanzitutto perché – a quanto pare – al di là dell’Atlantico riescono a leggere la situazione economica, politica e strategica dell’Europa (“tre decenni di fallimenti”) decisamente meglio rispetto a tanti addetti ai lavori di casa nostra. Nel contenuto asettico dello scritto il re dalla bandiera blu con le dodici stelle viene messo a nudo. Senza lo sviluppo interno di nuove tecnologie al passo dei tempi – leggere alla voce inverno imprenditoriale – stiamo “perdendo le sfide dell’era digitale”. Un quadro generale reso ancora più pesante da prese di posizione climatiche definite disastrose: “le politiche verdi mal concepite hanno consentito alla Cina di distruggere l’industria automobilistica, un pilastro dell’economia e della stabilità sociale europea”.

Walter Russel Mead – questo il nome dell’autore – critica quindi severamente il nanismo dei singoli Stati, troppo piccoli per avere un impatto considerevole sugli eventi globali”. Il politologo americano mette sotto accusa anche le lungaggini burocratiche, la vulnerabilità rispetto alle zone più calde del globo e le disastrose conseguenze di flussi migratori incontrollati. Con questi presupposti “l’Europa ha più che mai bisogno degli Stati Uniti, ma è meno ben posizionata per influenzare la politica americana”. Secondo il giornalista “paesi come Israele, India, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita hanno interpretato i segni dei tempi in modo più accurato” del nostro. E addirittura Indonesia, Filippine, Vietnam e Thailandia sarebbero più importanti della maggior parte del Vecchio Continente.

Un mondo post-europeo? No, più Europa nel mondo

Siamo quindi ineluttabilmente destinati a morire in un mondo post-europeo? No, perché l’avvenire non è mai scritto a priori. A patto però di iniziare a marciare seguendo le giuste coordinate. Torniamo quindi a noi. L’Unione Europea così come è concepita – burocratica, debole, lenta, fuori dalla storia – non ci piace. Non ci è mai piaciuta. Ma la giusta critica a queste mancanze non può mettere in discussione l’unificazione europea in sé. Nell’epoca dei grandi spazi, il ripiego piccolo-nazionalistico è una scelta suicida.

Come liberarsi (o quantomeno iniziare a pensare di farlo) dal giogo americano? Il passato ci insegna che l’indipendenza si conquista ricercando unità d’intenti e scopi: oggi vanno giocoforza concepiti in ottica continentale. L’Europa come nostro Limes, una forza – sociale e identitaria – capace di costruire l’alternativa a un mondo americanizzato, usuraio, messianico, apolide, senza patria.

Il genio e lo stile, italiani ed europei, andranno quindi riaffermati in avanti, qui e ora, alle condizioni date. Anche – anzi, soprattutto – se non sono di nostro gradimento. Ci si riappropria del passato – culturale, scientifico, artistico – solamente modellando il futuro. Per non uscire dalla storia, perché gli altri non lo faranno. C’è solo un antidoto al domani post-europeo: più Italia in Europa, più Europa nel mondo.

Marco Battistini

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