Roma, 30 nov – Tra il 30 novembre 1999 e il 20 luglio 2001 nasceva e moriva quello che sarebbe passato alla storia come “Movimento No Global”. Ciò che sarebbe morto a Genova era nato meno di due anni prima a Seattle. La città della Boeing e della Microsoft attendeva per quel weekend i rappresentanti dei 134 paesi membri dell’Organizzazione mondiale del commercio, più la Cina. La Guerra Fredda si era conclusa da 10 anni, l’estremismo islamico era un pericolo disorganizzato e localizzato, nel 1992 Francis Fukuyama aveva creduto di aver visto una storia sull’orlo del suo compimento, sotto l’ombrello della democrazia planetaria a guida Usa. Alla Casa Bianca sedeva Bill Clinton, faro del progressismo moderato mondiale. Nel giro di pochi anni, una parola aveva fissato lo spirito del tempo: “globalizzazione”. Tanti gli entusiasti, ma sempre di più anche i critici. Nascevano, appunto, i No Global.
In quel momento sembrò a molti che il movimento nascesse all’insegna di un caos creativo in cui non dovevano necessariamente essere gli schemi vetusti dell’antifascismo militante europeo a dominare la scena. Era, forse, un’illusione e, a rileggerle oggi, le invettive di Naomi Klein contro i loghi delle multinazionali o le crociate di José Bové contro i McDonald’s appaiono già viziate da un tono alter-mondialista, più che anti-mondialista. Ma la scossa fu comunque accolta con favore negli ambienti più svariati: a Seattle le manifestazioni popolari paralizzavano il vertice, che si concluse con un nulla di fatto. Nessuno si aspettava una reazione tanto forte in un momento simile. Dopo la vittoria ottenuta inaspettatamente nella città dei Nirvana, l’espressione “Popolo di Seattle” cominciò a essere usata per ogni manifestazione di quel tipo. A Seattle nasceva inoltre – o comunque è lì che trovava la sua consacrazione mediatica planetaria – un nuovo metodo di lotta, che non si limitava a cercare lo scontro contro un nemico “militare” fisico, ovvero la polizia, ma si andavano a colpire anche i simboli di un potere diffuso, disseminato, articolato in mille forme o, appunto, loghi: le vetrine dei fast food andavano in frantumi, le banche venivano prese d’assalto.
Poi, per eccesso di zelo, si cominciavano a colpire i simboli della ricchezza dei privati cittadini, come le auto di lusso. Nasceva l’estetica del riot, che tanti danni avrebbe fatto a quel mondo. I mesi successivi trascorsero in un crescendo febbrile di iniziative, piattaforme programmatiche, meeting, scontri. Non c’era grande evento della finanza che non fosse assediato. Nell’aprile del 2000 ci fu guerriglia a Washington, in occasione del G7, nel settembre dello stesso anno ci furono nuove manifestazioni a Praga, per l’incontro del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Ottobre 2000, G20 a Montreal, nuovi tafferugli, così come per il Consiglio europeo del dicembre 2000 a Nizza. Lo stesso accade a Davos, nel gennaio 2001, al Forum dell’economia mondiale e al Global Forum di Napoli, marzo 2001. Sempre a gennaio 2001, a Porto Alegre, si svolge il Social Forum, forse il punto di massima espansione degli alterglobalisti.
Nel frattempo, ogni residua illusione di trasversalità si è diradata e il movimento è diventato l’occasione per dare nuovo ossigeno al boccheggiante mondo dei centri sociali. Si arriva a Genova. È il G8 di luglio 2001. È tutto un disastro: una città sbagliata, una repressione feroce, ma anche tutti i limiti organizzativi di un universo politico preda di capetti arrivisti, senza una chiara gerarchia interna, con la fascinazione del riot fine a se stesso, con obiettivi fumosi, con strategie incomprensibili. Da quegli scontri, con tutto quel che ne è conseguito, il movimento uscirà a pezzi. Le istanze sociali con cui era partita la rivolta lasceranno il posto a rituali autoreferenziali sempre meno compresi dalla società nel suo complesso, in particolar modo dalle fasce popolari, sempre più attratte da ambienti con obiettivi meno ampi e fumosi, ma più concreti e puntuali. Dopo Genova, l’estrema sinistra non si riprenderà mai più.
Adriano Scianca