Roma, 13 nov – Continua a far discutere lo storico sabato di Bologna, infuriano le polemiche sui giornali e nelle televisioni. Sebbene qualcosa in zona stazione sembra essere cambiato – proprio in mattinata abbiamo ricevuto un paio di segnalazioni, sarà il tempo a pronunciarsi nella sua saggezza – come analizzato ieri su queste pagine i disordini causati dall’antifascismo felsineo hanno avuto l’intento di strumentalizzare la giusta protesta di CasaPound e Rete dei Patrioti. Nessuno parla di sicurezza (a parte Lilli Gruber, ma questo è un altro discorso), tutti pontificano sulle tartarughe frecciate. Ma con evidenti contraddizioni: qualcosa nel meccanismo comunicativo della sinistra è andato storto.
Lepore insiste sulle 300 camicie nere
Non intende placarsi, ad esempio, lo scontro tra Matteo Lepore e Giorgia Meloni. Come riportato nella mattinata di ieri da Open il primo cittadino della Dotta insiste sull’oltraggio che il corteo della discordia avrebbe perpetrato al capoluogo emiliano. Testuali parole: «Perché è stato permesso che 300 persone con la camicia nera sventolassero le loro bandiere marciando al passo dell’oca a pochi passi dalla stazione?».
Ora, il solito riferimento al tragico attentato del 2 agosto 1980 lascia il tempo che trova. In primis perché la questione, anche a distanza di quattro decenni e mezzo, è davvero controversa (su questi spazi già ampiamente trattata da Adriano Scianca e Gabriele Adinolfi). Ma soprattutto per il fatto che, ci pare assurdo doverlo ribadire, stiamo parlando di un movimento totalmente estraneo ai fatti. Vuoi solo per motivi temporali: CasaPound “nasce” nel cuore di Roma il 26 dicembre 2003. Ventitre anni, quattro mesi e ventiquattro giorni dopo la strage.
Se poi il riferimento al passo marziale in uso nelle parate militari strappa davvero un sorriso, troviamo al contrario il cenno ai vessilli piuttosto significativo. Sabato a Bologna, nella manifestazione delle polemiche, ha garrito al vento – alto e deciso – solamente il tricolore. Il simbolo di tutti gli italiani.
Bologna, continuano le polemiche: CasaPound querela Chiara Becchimanzi
Chi più, chi meno, a sinistra ognuno ha voluto dire la sua (al Riformista, dove evidentemente descrivono un mondo parallelo, hanno assegnato il ministero dell’interno direttamente a CasaPound). Eccoci a ieri sera, quando nel corso della trasmissione DiMartedì condotta da Giovanni Floris – siamo su La7 – l’attrice Chiara Becchimanzi prova a prendersi il suo warholiano quarto d’ora di celebrità.
Parlando delle tartarughe frecciate: «In quegli spazi occupati loro custodiscono manganelli con cui vanno a menare chi promuove manifestazioni pacifiche. Io lo so perché mi hanno menato». Risponde uno stupito Francesco Storace: «A lei?». Continua la stand up comedienne: «Sono stata menata, sì, dai collettivi di Casapound. Certo, certo, c’è stato un processo, si è concluso e avevo ragione io, pensi un po’ che cosa incredibile, perché accade».
E invece proprio in queste ore da Via Napoleone III fanno sapere tramite una nota che “l’unico processo dove si legge il suo nome, riguarda un’aggressione subita da 7 nostri militanti che, nel 2011 ad Ostia, furono attaccati da 20 attivisti dei centri sociali mentre affiggevano dei manifesti. La stessa Becchimanzi è stata condannata per rissa in primo grado, nel processo poi prescritto”.
La precisazione dell’avvocato Di Tullio
Oltre alla pronta risposta, il movimento identitario comunica che procederà anche per vie legali. Interessante in tal senso la precisazione dell’avvocato Domenico Di Tullio: «La Becchimanzi è particolarmente smemorata: non solo non ricorda di essere stata condannata per rissa aggravata insieme a numerosi altri, ma che, nella circostanza, nella sua auto venne ritrovata anche una mazza di scopa rotta a metà… dal pacifismo, evidentemente.» Un bel tacer non fu mai scritto, insomma. A sinistra se lo sono dimenticato.
Cesare Ordelaffi