Quando leggo il termine «resilienza», metto mano alla fondina. Questa parola di per sé non sarebbe un abominio, se ci attenessimo al suo significato originario, relativo al campo della fisica e dell’ingegneria: quello che indica, cioè, la capacità di un materiale di resistere a un urto, assorbendo l’energia che può essere rilasciata in misura variabile dopo la deformazione. Purtroppo l’interessante concetto, che trova infinite applicazioni nel campo della tecnica, è divenuto il termine principe della passivo-aggressività, ad indicare la sopravvivenza bovina alle sopraffazioni dell’esistenza: il trascinarsi in modo inerziale attraverso le difficoltà della vita – percepite non come prove da superare, ma sempre e solo come «torti» – masticando il rancore dei deboli.
Questo articolo è stato pubblicato sul Primato Nazionale di maggio 2019
Sulla carta, questo concetto definirebbe la tua capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici: nella realtà, indica che da una vita lo prendi in quel posto e non sai reagire in altro modo che incamerando quelli che percepisci come soprusi (fase di assorbimento dell’urto), per poi sfogarli in atteggiamenti e pensieri meschini, ma giustificati dal vittimismo (rilascio dell’energia). La resilienza non è sinonimo di forza: è più simile a un complesso del martire, che diventa l’alibi per scaricare il veleno assimilato in un veleno più dannoso: sublimato e quindi nebulizzato, distribuito a ventaglio tra le persone circostanti. Un gas nervino di lamentele pronunciate a mezza voce. Insomma, il «resiliente» diventa un attrattore e un diffusore di merda.
Resilienza e vittimismo
Le persone ci si marchiano anche, con questa parola, sfoggiandola tatuata: da un certo punto di vista è anche un fatto positivo, così riusciamo a riconoscerle ed emarginarle. Loro da una parte ci odieranno, emanando la loro nebbiolina putrida di lagne pronunciate a mezza voce, mentre dall’altro ce ne saranno grati perché la nostra cattiveria li avrà resi ancora più resilienti. Il principe dei punzonati ad inchiostro con questa etichetta è il ricco festaiolo Gianluca Vacchi, e già questo fatto dovrebbe togliere la voglia a chiunque anche solo di pensare la parola «resilienza». E invece…
Tutta colpa di Boris
È un concetto psicologico che «nasce male» anche scientificamente. Uno degli stessi padri della nozione, Boris Cyrulnik, si considera resiliente. Praticamente ha distorto un concetto della fisica per definire se stesso. Davvero poco autoreferenziale. Cyrulnik ha trascorso la propria vita a razionalizzare e superare traumi infantili – la scampata deportazione in un lager nazista e la morte dei genitori – mascherandoli da «ricerca scientifica». Egli ha quindi, per tutta la sua esistenza, fatto inquietante studio di decine di bambini orfani, vittime di mutilazioni e traumi di ogni ordine e grado, con morbosa meticolosità: arrivando a studiare anche il suicidio infantile, ha poi illustrato i risultati in una serie infinita di pubblicazioni dai titoli evocativi quali Il dolore meraviglioso, I fantasmi che sussurrano, o Parlare d’amore sull’orlo del precipizio.
Siamo quindi in presenza di uno scienziato che ha la presunzione di studiare lucidamente traumi di cui egli stesso è stato soggetto, infrangendo la regola aurea per cui l’autore dello studio dovrebbe essere un osservatore terzo, esterno al sistema che sta osservando. E questo conferma la fallacia dei ragionamenti dei resilienti: persino uno dei teorici del concetto stesso presenta un gravissimo difetto di percezione di sé.
1 commento
Bravissima! Era ora che qualcuno denunciasse l’uso improprio, stupido e tendenzioso che si fa della parola “resilienza”, un termine abusato, preso in prestito da un settore specialistico (la tecnologia dei materiali da costruzione) e utilizzato a sproposito fuori dal contesto originario quale sostituto di “resistenza”. Utilizzo tendenzioso, perché – come rimarca giustamente l’Autrice del pezzo – induce a credere che sia sinonimo di “resistenza”, intesa come volontà di opposizione, come segno di carattere, di forza che contrasta attivamente delle avversità, mentre indica tutt’altra cosa: la mera capacità di sopportare passivamente e il più a lungo possibile quelle stesse avversità, comprese – nei rapporti sociali – le ingiustizie, le prepotenze, le aggressioni e ogni sorta di sopraffazione.