Roma, 14 ott – E’ riscattato puntuale, come ciclicamente avviene, l’allarme detenuti. Questa volta ad accendere i riflettori sulla questione dell’impianto carcerario nazionale è stato niente meno che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con la proposta di un’amnistia generale. Il messaggio alle Camere da parte della prima carica dello Stato sembra aver ottenuto un feedback in gran parte positivo anche se non tutte le parti politiche vedono di buon occhio il provvedimento. Il M5S su tutti ha voluto esprimere il proprio dissenso nei confronti del provvedimento proposto dal Presidente Napolitano ed è tornata a tener banco ancora una volta la sempiterna questione delle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi, come se la salute fisica e mentale di migliaia di detenuti comuni in situazioni critiche non dovesse risultare più delicata delle facezie di Palazzo Grazioli. Questo eventuale provvedimento di amnistia (dal greco “dimenticanza”) seguirebbe non pochi illustri precedenti, a partire dall’amnistia e indulto di epoca fascista del 1942 fino ad arrivare ai giorni nostri con l’amnistia del 1990 e l’indulto del 2006. E se vogliamo continuare a risalire nel tempo con i cenni storici basti pensare alle amnistie concesse di rito a Roma ben prima dell’Unità d’Italia, quando il Pontefice moriva lasciando posto al suo successore.
Eppure quest’amnistia appare come una tardiva presa di coscienza, anche un po’ colpevole se vogliamo perché vuole trovare la soluzione partendo dalla punta dell’iceberg senza rendersi conto che il vero problema non è a pelo d’acqua ma molto più in profondità. In Italia il sistema carcerario non segue neanche la metà di quelli che dovrebbero essere i criteri standard in materia di strutture penitenziarie, e se è vero che la civiltà di un paese si giudica anche da come questo tratta i propri detenuti beh, c’è da mettersi le mani nei capelli. La galera in Italia non ha alcuna funzione rieducativa ma somiglia molto di più a una vendetta continua da parte dello Stato e il reinserimento degli ex detenuti in un contesto lavorativo normale è spesso appannaggio esclusivo di qualche cooperativa sociale, meritevole ma non certo sufficiente per tutta la popolazione carceraria. Attualmente i detenuti ammontano a circa 65 mila in tutta Italia a fronte di una capienza massima di circa 47 mila posti a disposizione, il personale medico e sociosanitario è insufficiente e spesso inadeguato, i suicidi in cella aumentano ogni anno in maniera esponenziale.
A cosa serve l’amnistia in un paese dove il 40% dei detenuti non sono ancora stati giudicati colpevoli da un tribunale? Magari a far bella figura con l’UE dopo la condanna del 2010 per “trattamenti inumani e degradanti” ma non certo a risolvere il problema alla radice, con buona pace di Alberto Sordi e Nanni Loy che denunciarono nel 1971 questa gravissima falla del sistema giudiziario nazionale nel meraviglioso film “Detenuto in attesa di giudizio”.
Basta con provvedimenti che servono esclusivamente a nascondersi dietro a un dito. Il sistema detentivo italiano deve essere scardinato pezzo per pezzo per poi essere ricostruito dalle fondamenta e quello giudiziario subito dopo, magari partendo dalla depenalizzazione di reati che in altri paesi prevedono pene alternative a quella detentiva.
Un’amnistia e un indulto non ristruttureranno prigioni fatiscenti, non risolveranno la vita di otto detenuti in una cella da tre, non eviteranno vessazioni e prepotenze da parte di una polizia carceraria troppo spesso sulle pagine di cronaca e non restituiranno la libertà di chi è stato dimenticato in cella come un animale prima di venire riconosciuto innocente e assolto dopo qualche anno.
Restituiamo quindi all’amnistia e all’indulto quella che è la loro vera natura: una concessione di grazia, non l’unica soluzione possibile all’arretratezza e alla drammatica inadeguatezza dei sistemi giudiziario e carcerario italiani.
Michele de Nicolay