Dopo la figuraccia rimediata dalla nazionale di Luciano Spalletti in Germania, tra i motivi elencati dai giornalisti sportivi per spiegare un tale fallimento, puntuale è stato evidenziato il fatto che l’Italia non sia ancora una squadra multietnica al pari di Francia, Inghilterra, Belgio, Portogallo, Germania e, da quest’anno, anche la Spagna neo campione d’Europa.
Lo fa notare con stupore e rammarico Mauro Berruto su Avvenire del 3 luglio scorso chiedendosi: «Perché, dunque, in Europa questa multietnicità nel calcio è la norma, mentre in Italia lo è diventata soltanto negli sport “minori”?»; evidentemente è un «problema culturale» del nostro sistema calcio, definito addirittura «conservatore e reazionario», che non concede molte possibilità ai giovani di “seconda generazione”, delegittimati perché neri e, quindi, considerati poco intelligenti dal punto di vista tattico.
Il sito Ilnapolista.it rincara poi la dose evidenziando come la polemica sui troppi giocatori stranieri nel nostro campionato sia da superare e che, invece, sia proprio il multiculturalismo e non l’identità la soluzione; bisogna guardare alla Spagna che, grazie ad un sistema scientifico di reclutamento attuato dalla Federcalcio iberica, «fa sfracelli» con i talentuosi figli di immigrati Lamine Yamal e Nico Williams.
Insomma, la solita solfa del “miglioramento della specie” alla Michele Serra, sbandierata come un mantra anche dai vari Malagò pro Ius soli (il problema è sempre lui, l’uomo bianco europeo!). In questi ultimi anni ci siamo sorbiti gli elogi del Belgio di Lukaku &co, della Germania afro-turca campione del mondo e della Francia di Mbappé, ascoltando sempre il medesimo ritornello: le squadre multicolore, oltre ad essere belle, sono anche più forti e vincenti.
Ma, a parte il cripto-razzismo di questi ragionamenti, sarà proprio così?
La Spagna “piglia tutto” del periodo 2008-2012 non era multietnica, così come l’Italia del 2006 e quella di Mancini campione d’Europa 2020 e nemmeno l’Argentina “troppo” bianca che ha battuto in finale all’ultimo mondiale una Francia ormai non più multietnica, ma omogeneamente extra-europea; inoltre proprio il Belgio arabo-sino-africano o la Svizzera kosovara di Xherdan Shaqiri non sembra abbiano vinto granché…
Per smontare questo falso mito basta considerare che proprio nella Spagna vincitrice una settimana fa del titolo europeo Lamine Yamal e Nico Williams rappresentano solo due/undicesimi dell’intera squadra titolare. Altri esempi poi si possono citare per smentire questa narrazione.
A volte i giocatori sono figli di un genitore europeo e un genitore extra-europeo, come nel caso del tedesco Jérome Boateng o del nostro Marcel Jacobs, di conseguenza non si possono definire di “seconda generazione”; in queste stesse famiglie, inoltre, accade che si facciano anche scelte esistenziali diverse: ad esempio, proprio il fratello di Boateng, il ben più famoso Kevin-Prince, ha scelto di giocare per la nazionale del Ghana, di cui è originario il padre, lo stesso motivo che ha spinto Inaki Williams (fratello di Nico) a indossare la maglietta dello stesso Paese africano; quasi l’intera nazionale del Marocco è nata in Europa da genitori immigrati, ma tutti hanno scelto di giocare per il Paese di origine della famiglia, mentre il “tedesco” Ozil, dopo aver vinto il Mondiale con la nazionale teutonica, ha pensato bene di scegliere la cittadinanza turca e farsi sposare da Erdogan.
E veniamo a noi. Più ancora di Balotelli, esaltato fin troppo dall’ex citì della nazionale Cesare Prandelli, è più utile ricordare la scelta di Moise Kean, figlio di genitori ivoriani, di abbandonare il ritiro azzurro under21 perché non a suo agio negli spogliatoi; ancora, Paola Egonu è solo una componente di talento in una squadra vincente come gruppo, così come nel team di atletica ci sono italiani fenomeni come Filippo Tortu o Gianmarco Tamberi (con buona pace di Formigli).
Il penoso episodio di Suarez “falso italiano” solo per poter giocare nella Juventus o il video che ritrae Yamal festeggiare la vittoria del “suo” Marocco proprio contro la Spagna (che gli ha permesso di vincere un Europeo, altrimenti se lo sognava col “suo” Marocco) dimostrano quanto, spesso, alla base di talune scelte ci sia solo una convenienza e non un reale sentimento di appartenenza.
A questo punto, per concludere, è lecito porsi qualche domanda: ma a nessuno interessa dei nostri ragazzi vincitori del campionato d’Europa under19? E quanti di loro vedremo giocare nella nazionale maggiore? Oppure sono destinati a “crepare” (calcisticamente parlando, sia chiaro) in qualche squallido campetto di terza categoria perché non sono dei “nuovi italiani”?
Gianluca Rizzi