Washington, 11 mar – Goldman Sachs, i radical chic di tutto l’occidente, molte lobbies e persino falchi neocon come Robert Kagan: la sfilza dei nemici dichiarati di Donald Trump ha contribuito ad accrescere l’interesse e la curiosità verso il tycoon americano, lanciatissimo nella campagna elettorale. La rabbia di tali avversari ha insinuato nei commentatori più anticonformisti (non certo Panebianco del Corriere della Sera quindi) il dubbio che Trump possa conferire una ventata di freschezza al panorama americano, ancora sconvolto dalla crisi e dalle politiche fallimentari e interventiste di Bush e Obama. Al stesso tempo però, permangono perplessità verso un uomo che è l’emblema del sogno americano, multimiliardario, individualista e televisivo come nella peggior tradizione della democrazia elettoralistica, fomentata da vere e proprie tifoserie. Trump è stato paragonato a molti personaggi politici del passato, come Hitler e Mussolini, ma quelli che sembrano avvicinarsi realmente alla sua figura sono due: Ronald Reagan e Huey Long. In questi due nomi sono racchiuse, semplificando, le potenzialità che una vittoria di “The Donald” nasconde.
Partiamo da Reagan: l’ex presidente repubblicano condivide con Trump la provenienza dal mondo dello spettacolo, l’essere un outsider rispetto alla politica di Washington, l’odio verso la pressione fiscale, l’individualismo sfrenato («meno governo, più privato») e lo slogan «rifare grande l’America». Un’idea che include il boicottaggio degli alleati, come l’Italia quando condannò Meredith Kercher, e l’impegno militare. Queste basi hanno portato Trump a ravvivare la tradizione politica del «nativismo protestante», con parole di fuoco verso l’Islam che rischiano di cancellare la complessità dei vari attori del Medio Oriente facendo decollare lo «scontro di civiltà». Una superficialità piena di rischi: come Reagan, Trump potrebbe impegnarsi in una serie di interventi mirati senza preoccuparsi delle conseguenze, aggravando ancora di più alcuni scenari caldi a livello internazionale. In più, sotto la presidenza Reagan la forbice ricchi – poveri si allargò a dismisura, in virtù di quelle basi liberiste che Trump sposa in pieno. La frase celebre del suo reality show «The Apprentice» non a caso era: «you’re fired!» (sei licenziato!), per l’etica del «palazzinaro» americano ciò che conta sono prima di tutto i dollari e il successo. Una frana che potrebbe ripercuotersi anche nella stanca Europa, che spesso assorbe le scosse negative oltreoceano, imitandone per di più il modello sociale. In buona sostanza, dietro la rinascita americana promessa di Trump potrebbe nascondersi una rivoluzione solo di facciata, pronta a dare sfogo agli istinti reazionari delle masse e capace di aggravare l’attuale declino. La stessa dinamica che si verificò con Reagan, le cui politiche economiche anni ‘80 spianarono la strada all’attuale trionfo della «civiltà materialista».
Il parallelismo con Huey Long richiede prima di tutto una messa a punto storica: l’ex senatore democratico della Louisiana, scomparso nel 1935, è stato totalmente dimenticato, forse per via del suo avvicinamento al fascismo, con cui condivideva l’idea di unire l’aspetto sociale a quello nazionale. Sulla scia di Mussolini, Long fu in grado di varare dei programmi sociali, previdenziali e sanitari avanzatissimi per l’epoca, in un ottica che si avvicina di più al socialisteggiante Bernie Sanders che a Trump (che ha contestato aspramente misure come l’Obamacare). Con Long, Trump condivide invece il populismo, l’odio per le convenzioni, la capacità di parlare di economia reale (pensiamo alla difesa del patrimonio manifatturiero Usa), di infiammare la working class e l’essenza da «street fighter», politico da rissa da strada, senza peli sulla lingua. In più, Long era un convinto isolazionista, aspetto che potrebbe accomunarlo a Trump se terrà fede ad alcune promesse come quella del protezionismo sui prodotti cinesi, del rispetto per Putin o la mancata ratifica del Ttip. Long seppe infondere fiducia alle masse americane in ginocchio crisi del ’29, contestando Roosevelt per la timidezza nell’applicare il New Deal e proponendosi come un credibilissimo candidato alla presidenza prima dell’improvvisa e tragica fine, segnata da un colpo di pistola: «Come negli attentati a Kennedy e Roosevelt, non si poté mai appurare se l’assassino avesse agito spontaneamente, con la complicità della mafia, allora come oggi molto forte a New Orleans, o su mandato del business», ha scritto Ennio Caretto nell’emblematico libro Quando l’America di innamorò di Mussolini. Il mondo finanziario fu scosso realmente dalla carica populista e genuina di questo personaggio, al cui funerale parteciparono milioni di persone. A Trump non resta che augurare di saper cogliere il meglio di questa tradizione, con un finale ovviamente diverso.
Agostino Nasti