Roma, 28 mar – “Più di quattrocento ex combattenti jihadisti stanno tornando nel Regno Unito“. A dare l’allarme, in un articolo pubblicato ieri su Sky News, è Mark White, che cita fonti della sicurezza, le quali riterrebbero appunto che almeno quattrocento combattenti, di ritorno dagli scenari di guerra in Siria ed Iraq, stiano per rientrare nel paese.
“Le autorità”, aggiunge White, “ritengono ci sia un rischio crescente che il Regno Unito subisca lo stesso tipo di attacchi con armi da fuoco ed esplosivi visti in Francia e Belgio recentemente“. Secondo Sky News, soltanto una piccola parte degli jihadisti tornati dal medioriente, sarebbero stati perseguiti ad oggi. Tra loro Imran Khawaja, condannato a 12 anni di prigione una volta rientrato nel paese: partito per la Siria nel 2015, tratto in arresto già nel 2015, Imran Khawaja, nonostante il nome poco inglese, viene dai quartieri ovest di Londra ed era stato fermato insieme al cugino Tahir Bhatti, condannato per favoreggiamento avendolo aiutato a rientrare nel paese andando a prenderlo fino in Serbia, ed al suo amico Asim Ali, condannato per averlo aiutato economicamente nell’impresa.
Cittadini inglesi come l’attentatore di Westminster, Khalid Masood, per i quali l’identità britannica è solo qualcosa che sta sulle carte ma nella quale non si identificano, rivendicando piuttosto le loro origini culturali ed etniche extraeuropee. Un dato lampante che sembra però sfuggire ad alcuni giornali inglesi i quali, come fa “The Independent“, affermano che potremmo non capire mai perché il cinquantaduenne nato ad Adrian Elms nel Kent, lo scorso 22 marzo, ha ucciso quattro persone davanti il parlamento inglese. Eppure, anche gli investigatori hanno detto chiaramente che Masood, pur ritenuto un lupo solitario, si è ispirato al terrorismo internazionale di matrice islamica. “L’attentatore di Westminster non era un autentico musulmano“, titolava ieri il quotidiano britannico. Non disdegnava le prostitute, fumava il crack, in passato aveva rubato, spiega Peter Walker in un articolo che non si capisce dove voglia andare a parare ma che, ad un occhio disattento come i frequentatori dei social, sembra quasi voglia far passare il messaggio che il terrorismo islamico non esista. Perché? Beh, se chi commette un attentato automaticamente non è un buon musulmano e si pone al di fuori della sua religione, allora quell’attentato sarà solo un attentato, commesso da un folle, che ha evidentemente mal digerito e mal compreso una certa etica religiosa. Un po’ come con i “compagni che sbagliano” del terrorismo rosso in Italia, formule aiutano a non mettere in discussione l’humus culturale dal quale nascono certi fenomeni e, soprattutto, ciò che contribuiscono a creare e dal quale sono generati. Si tratta, in breve, di decostruire un concetto chiaro al fine si svuotarlo di significati. Così raccontato, isolato, decontestualizzato e sezionato, Kahlid Masood è oggettivamente solo un folle. E così ci si priva di una visuale più ampia; e di guardare, ad esempio, alla città di Birmingham, dove pure il terrorista aveva vissuto di recente e dove si concentrano ora le indagini. Una cittadina che il quotidiano “Repubblica” addirittura osa ricordare per la sua fama poco onorevole: “Il ‘piccolo califfato’, come è soprannominata, ha al suo interno zone ‘oscure’ dove l’integrazione fra comunità diverse appare difficile se non impossibile”.
“La seconda città d’Inghilterra per popolazione”, prosegue il giornale diretto da Mario Calabresi, “è considerata il cuore nero della minaccia del terrorismo islamico nel Paese. Lo ha confermato di recente un rapporto condotto dalla polizia locale su ordine del capo dell’antiterrorismo, Mark Rowley, che ha preso in esame vari reati fra cui i 269 attentati e attacchi censiti perpetrati da cittadini del Regno (nel Paese o all’estero) dal 1998 in avanti. Se ne deduce che un decimo di tutti i presunti jihadisti britannici è originario di appena “5 quartieri di Birmingham”, nella cui area metropolitana vivono oltre 234mila musulmani: più del totale di Yorkshire, Grande Manchester e Lancashire messi insieme. E che il numero di crimini riconducibili a costoro è più che raddoppiato nei soli ultimi 5 anni”.
Numeri che ci parlano di una integrazione fallita ma che i politici ed i media progressisti sono costretti a svuotare di significato, decostruendolo all’infinito, per non ammettere il fallimento della loro visione del mondo, la stessa del sindaco pakistano ed islamico di Londra che ha sparso per la città manifesti con lo slogan: “A Londra tutti sono benvenuti”. Nel frattempo, però, la realtà ci parla di identità che resistono e proliferano nel contesto di un’Europa che, invece, ha perso l’orgoglio per la propria o, quanto meno, la volontà di sopravvivere come tale. E sono queste identità che, giustamente tutelate quali minoranze ma infine politicamente privilegiate fino all’auto-razzismo, nel corto circuito di una Europa che accoglie e crea nuovi cittadini senza però aver la forza e la consapevolezza per dare sostanza e forma a quella cittadinanza, anziché sparire si ipertrofizzano fino all’esplodere di un terrorismo in cui si incanala l’insofferenza verso un modello culturale di fatto debole.
Non è del resto un mistero (e ne avevamo già parlato) che per l’Islam radicale il controllo delle carceri sia uno dei mezzi di reclutamento principale. Perché ovviamente è il controllo del territorio in genere è sempre un ottimo strumento per il controllo delle idee. Ecco perché è del tutto irrilevante il fatto evidenziato da “The Independent” che Masood, come molti altri terroristi e combattenti dell’Isis, non siano dei buoni musulmani: di fatto lo Stato Islamico esiste lo stesso ed ha una matrice culturale e identitaria precisa. Ed ecco perché non è per nulla ininfluente che in una città ci siano quartieri praticamente occupati da popolazione straniera. Senza contare i risvolti pratici immediati: “In Gran Bretagna 3.500 sospettati. Quasi dodicimila in Francia. Un migliaio in Germania. Poche centinaia lungo la nostra penisola“, scriveva sabato 25 marzo il Corriere della Sera, in un articolo firmato da Guido Olimpio. “Se devi controllarne uno in modo accurato”, spiegava nella sua interessante argomentazione, “servono due turni da 18 agenti l’uno, distribuiti tra auto, scooter e a piedi. Il target può muoversi a bordo di un veicolo, camminare per chilometri, servirsi del metrò. Spesso i target sono abitudinari. […] Poi un giorno scarta, all’improvviso, e ci vogliono ore per ripescarlo”. Insomma, tremila personaggi sospetti in Gran Bretagna vuol dire che, per controllarli tutti, sarebbero necessari 108mila agenti dediti soltanto al loro pedinamento. Una situazione insostenibile che, di questo passo, presto potrebbe verificarsi anche in Italia.
Emmanuel Raffaele