Roma, 11 nov – Per chi si occupa di “esteri” e conserva un occhio di riguardo per le vicende politiche e geopolitiche della regione del sud est asiatico, la notizia della vittoria elettorale della Lega per la Democrazia della signora Aung San Suu Kyi ha di certo rappresentato un punto di svolta in molte analisi e proiezioni che vedevano al centro il paese delle pagode.
Quello che è avvenuto in Birmania, però, apre la strada a nuovi profondi interrogativi che, lasciata depositare la polvere dell’euforia “dem” in stile obamiano, si ergono ora ad invadere il campo delle ipotesi.
Ne parliamo con Franco Nerozzi, presidente della Comunità Solidarista Popoli che da più di dieci anni aiuta la minoranza Karen nei territori della Birmania orientale. Chiunque negli anni abbia visitato il paese dei Karen a seguito delle missioni umanitarie dei “ragazzi di Franco” non può non ricordare le innumerevoli testimonianze delle violenze e della repressione perpetrata dai birmani sulla popolazione civile delle aree di confine, tutti noi che negli anni ci siamo fatti rubare un pezzo di cuore dai sorrisi gentili, e dalla risolutezza di questo incredibile popolo guerriero, non possiamo non attendere ora con ansia i risvolti di eventi che si annunciano così epocali.
Cambierà tutto sul serio o vedremo una riedizione birmana del Gattopardo dove si rivoluziona tutto per non cambiare nulla? Riuscirà la Lady premio Nobel, con le amicizie importanti che vanta, a cambiare il paese per tutti?
Sicuramente sbaglierò, la mia analisi risulterà sideralmente lontana dalla realtà. E onestamente mi auguro sia così.
Però la mia sensazione è che con la vittoria di Aung San Suu Kyi le cose si metteranno molto male per i Karen e per le altre minoranze etniche che abitano i territori di quello che oggi tutti chiamano Myanmar.
Non terrò in considerazione le eccitate dichiarazioni delle nullità politiche del nostro Paese, sebbene già l’euforia liberaldemoplutofintoproletaria espressa in queste ore dagli Onorevoli Nessuno e dalle Onorevoli Inutilità, se presa sul serio, potrebbe dirla lunga sul cosa ci dovremo attendere dal cosiddetto nuovo corso birmano. Se la prendessimo sul serio, appunto.
In realtà, la corsa alla partecipazione chiacchierata e retorica ad un evento definito di portata storica -li stiamo vedendo tutti i parlatori a vanvera delle istituzioni- risponde all’esigenza di ribadire quanto le forze politiche italiane siano state vicine, a parole, alla “Lady” durante gli anni bui, così da non perdere il predellino per la salita sul carro del vincitore. Ma la realtà della situazione va vista attraverso la lente dei veri rapporti di forza nel paese delle pagode e tenendo ben presente alcuni tratti della personalità di Aung San Suu Kyi. Come da noi già sostenuto in passato, la Signora è persona di grande coraggio e di tenacia esemplare. Ha tenuto testa per lunghissimi anni a dei gangsters in divisa che vedevano la Birmania come il loro grande scrigno privato da cui estrarre ricchezze prodotte in buona parte sfruttando il lavoro di schiavi, commerciando in stupefacenti, requisendo terreni e disboscando le foreste del Paese.
Alla “Lady” non è mai stato torto un capello, poiché la grande popolarità goduta prima dal padre (anch’egli un militare, fatto fuori dai suoi colleghi poco dopo l’ottenimento dell’indipendenza dalla Gran Bretagna) e il largo seguito di cui poi iniziò a beneficiare il suo movimento per la democrazia avrebbero reso controproducente qualsiasi azione violenta nei suoi confronti. Ma anche perché poteva contare su importanti protezioni internazionali e perché predicava una resistenza non violenta al regime. Di fatto, l’ostaggio Aung San Suu Kyi, premiato con il Nobel per la Pace ma recluso ai domiciliari, ha svolto per i Generali birmani la preziosa funzione di mediatrice con le potenze occidentali in un lungo processo di apertura economica che ha influenzato buona parte delle scelte politiche del Governo di Rangoon. In altri termini, e in concomitanza con l’arrivo ai vertici della gerarchia militare di elementi meno legati alla vecchia alleanza con il colosso cinese e maggiormente attratti dalle meraviglie della galassia capitalista, si ha avuto la netta impressione che il ruolo della “Lady” passasse da quello di affascinante paladina della libertà politica a quello di ambasciatrice di una Birmania dal volto più presentabile ma soprattutto “liberista”.
Sia chiaro, lungi da me il tentativo di criticare Aung San Suu Kyi per la scelta di una strategia che sta probabilmente portando i suoi frutti sul piano dell’allargamento della partecipazione popolare alla vita politica (seppur con enormi limiti che molti politici europei nel loro accecante furore democratico paiono non vedere). Qui si sta solo cercando di comprendere come questi risultati incideranno sulla reale esistenza di milioni di persone le quali, non appartenendo all’etnia della “Lady” e dei Generali, ed abitando le aree orientali del Paese, teatro da 66 anni di guerra, persecuzione, violenze e atrocità, si stanno chiedendo se il successo della NLD alle elezioni possa essere considerato l’inizio del cammino verso la libertà.
Se dovessimo rispondere guardando al silenzio con cui Suu Kyi ha osservato il massacro della minoranza musulmana dei Rojinga da parte delle forze di sicurezza birmane e da parte degli estremisti buddhisti, dovremmo rispondere che i gruppi etnici non potranno contare molto sull’intercessione della “Lady”. E la stessa risposta dovremmo darla ricordando come nel marzo del 2012 il Premio Nobel per la pace invitava i dimostranti a desistere dalla loro protesta di fronte al sito in cui si sarebbe dovuta costruire la più grande miniera di rame del Paese. Chi si opponeva al progetto denunciava che i lavori avevano causato enormi problemi ambientali e sociali nell’area, a cominciare dall’esproprio forzato di 7.800 acri di terra con conseguente trasferimento delle popolazioni che vi abitavano.
Insomma, una paladina della libertà che si fa un po’ “crumira” nel caso di grossi investimenti internazionali e un po’ settaria quando c’è da bastonare qualche minoranza che non piace ai Generali. Ma ad onor del vero, va anche ricordato che proprio poche settimane fa, in occasione della firma di un cessate il fuoco tra alcuni gruppi armati e il Governo Birmano, Suu Kyi ha declinato l’invito a partecipare ad un evento venduto come “storico” dai vertici militari sostenendo in pratica che quel cessate il fuoco non aveva senso dal momento che nelle stesse ore l’esercito aveva lanciato delle offensive contro altri gruppi etnici provocando migliaia di nuovi profughi e la morte di numerosi civili.
Luci ed ombre quindi, che rendono molto difficile l’interpretazione della personalità e dell’indole della “Lady”. Di facilissima lettura invece la “struttura” dei rapporti di forza codificata nei meccanismi politico/istituzionali creati dai Generali e destinati ad avere grande peso nel futuro cammino del governo che verrà formato. Tutti sappiamo che la carta costituzionale imposta dai militari riserva loro il 25% dei seggi parlamentari, indipendentemente dall’esito delle elezioni. E che per cambiare la Costituzione è necessario il voto del 75% più uno dei membri del parlamento. Di fatto, quindi, ci troviamo di fronte ad una Costituzione disegnata dai militari, per i militari, e impossibile da cambiare con una procedura democratica. Ma quello che forse non sappiamo é che ad influire maggiormente sul destino dei gruppi etnici -che sarebbe più giusto chiamare ”Popoli non birmani”- sarà l’assegnazione dei Ministeri chiave. Gli Interni, la Difesa e il Ministero per gli Affari di Confine –che si occupa delle questioni riguardanti le aree popolate dalle minoranze- restano appannaggio esclusivo degli stessi Generali che hanno finora condotto le sanguinose campagne militari contro i Karen, gli Shan, i Kachin, e le altri genti che aspirano all’autonomia.
Sbirri, soldati e “governatori” degli stati etnici restano quindi sotto il diretto controllo del vecchio regime. Ma il bello deve ancora venire: pochi sanno che l’organo più importante e potente della struttura costituzionale è il Consiglio per la Difesa e la Sicurezza Nazionale, a maggioranza blindata a favore dei militari, che può in qualsiasi momento bloccare o cambiare leggi che vengano giudicate pericolose per l’unità del Paese e per la sicurezza interna. In altre parole, alla NLD (il partito di Suu Kyi) verrà consentito di approvare leggi che piacciono ai militari e verrà impedito di occuparsi del conflitto con i gruppi autonomisti. Aver accettato una Costituzione con queste eccezioni a mio avviso sancisce un compromesso piuttosto imbarazzante per la “Lady”. Sembra proprio che la sua liberazione dai domiciliari, la sua ascesa politica, il suo ingresso in Parlamento e infine la vittoria elettorale servano come la più classica delle foglie di fico che consente ai Governi e alle aziende occidentali di sviluppare il business con il Myanmar senza essere criticati dai guardiani della ortodossia democratica dei loro paesi.
Dal mio punto di vista quindi poco deve cambiare nell’atteggiamento delle formazioni armate nelle regioni interessate dal conflitto. La guardia deve rimanere alta, e le regole fissate per garantire la sicurezza della popolazione Karen, è il caso che ci riguarda da vicino, devono essere rispettate con rigore ed intransigenza. Già sappiamo che se domattina una colonna di soldati birmani cercasse di penetrare nelle zone controllate dai leader Karen che si sono opposti alla firma del cessate il fuoco, questa verrebbe accolta a fucilate dagli uomini delle Special Forces della KNDO guidata da Nerdah Mya e dai volontari di Baw Kyaw.
Infatti, per quanto riguarda le istanze di sicurezza, autonomia e libertà per le quali migliaia di Karen hanno dato la vita negli ultimi 66 anni, questa vittoria elettorale significa nulla. Nerdah Mya, dopo essersi complimentato con Aung San Suu Kyi per il suo trionfo, ha ribadito che le richieste dei Karen e degli altri Popoli devono essere rispettate. Che si deve trattare seriamente sul tema dell’autodeterminazione e della formazione di uno Stato Federale. Sulla fine delle offensive nel Nord e sul ritiro delle truppe birmane dalla regione Karen. Ha detto che per lui la guerra non finisce soltanto perché il partito di Suu Kyi vince le elezioni. “Combatteremo per la nostra libertà contro chiunque cercherà di impedirci di ottenerla, sia esso un regime militare o un governo democratico” ha dichiarato dopo aver stretto una nuova alleanza con numerose formazioni attive nella resistenza antibirmana.
Ritengo che purtroppo, la vittoria di Aung San Suu Kyi renda ancora più critica la situazione per chi come Nerdah Mya e Baw Kyaw si batte per la difesa del proprio Popolo. Immaginate gli strali e gli epiteti contro di loro nel momento in cui si scontreranno nuovamente con i Birmani? Immaginate la severa faccia da staffetta partigiana della Boldrini che darà dello “squadrista” al guerrigliero Karen che oserà opporsi ai soldati inviati nella sua terra dall’elegante icona della democrazia internazionale? Io si, immagino tutto questo. Immagino patrioti sempre più isolati, liquidati come “terroristi” dalla stampa mondiale.
Immagino eserciti di bulldozer che avanzano gioiosamente per portare il progresso nelle jungle che frequentiamo da più di venti anni. Immagino gli sfruttatori di sempre brindare all’ennesima vittoria del Mondialismo.
Franco Nerozzi
A cura di Alberto Palladino