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Nella terra degli Ari, reportage dall'Iran/1: culto dei caduti e tricolore

by Eugenio Palazzini
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11822984_971116849598056_8895173613738188716_oIshafan, 11 ago – “Cosa pensi dell’Iran? Davvero credi che siamo terroristi?”. Lungo i viali alberati di Ishafan, tra il quartiere cristiano armeno di Jolfa e la meravigliosa Nasqh-e Jahan Square, la piazza più grande al mondo dopo piazza Tienanmen, sono soprattutto le ragazze che con aria curiosa ti fermano e attendono le tue risposte. “Sono appena arrivato dall’Italia ma no, non penso affatto che siate terroristi”.
La lieve ombra del velo svanisce e lascia spazio ad un sorriso raggiante. Fatima è originaria del Baluchistan iraniano, si trova a Ishafan con la famiglia perché il padre lavora qua. Ha 18 anni, non ha mai varcato i confini patri ma parla un inglese eccellente. Mi invita insieme alla famiglia, tutte donne a parte il 20150805_093344fratello e un cugino, ad un picnic a base di tè e gelato al pistacchio. Sul ponte Khaju è quasi mezzanotte e le luci delle imponenti arcate non si riflettono come in inverno sul letto del fiume, adesso completamente asciutto, ma esaltano le note della chitarra di Farshad, il cugino di Fatima, che dopo avermi regalato, lui sciita, una collana con il simbolo di Ahura Mazdha (il dio supremo e unico degli zoroastriani), improvvisa un’esibizione di musica tradizionale iraniana. Tutto intorno una piccola folla di giovani canta e applaude. Istantanea di un popolo sereno, oltre ogni aspettativa. E’ ora di tornare in albergo e la famiglia di Fatima assale al gran completo un taxi per trattare un prezzo economico per me. “Ti aspettiamo a Kerman, devi venire assolutamente a casa nostra per qualche giorno”. Accetto l’invito senza rendermi conto della distanza leggermente proibitiva.
Stereotipi – Al caffè vicino all’Iran Hotel di Ishafan siedono giovani coppie alla moda, non solo per gli 20150805_095744standard locali. La selezione musicale è sorprendente, varia dal jazz a Capossela, e i giovani gestori mi chiedono di lasciar perdere per un attimo l’inglese e di parlare in italiano a ruota libera: “vorremo imparare la tua lingua, ha un suono meraviglioso”. Nella “terra degli Ari” (significato letterale del termine “Iran”) le donne siedono tranquillamente accanto agli uomini nei bar, la percentuale di laureate supera quella dei laureati, il niqab (velo integrale diffuso in molti stati islamici) è una rarità, la percentuale di interventi di chirurgia estetica, qualunque cosa si pensi sull’argomento, è tra le più alte al mondo.
Certo è pur vero che rimangono forti limiti alla manifestazione della femminilità, almeno secondo i parametri occidentali, e non solo per l’obbligo di coprire la testa reso obbligatorio con la rivoluzione khomeinista. Le forme del corpo non possono essere mostrate fuori dalle case, gli abiti quindi devono non solo celare ma evitare di mettere in evidenza le parti giudicate provocanti. Non è raro quindi vedere donne truccatissime, spesso in modo eccessivo, quasi a voler compensare ciò che è proibito. O come mi dice Fatima parlando del velo: “Ciò che mi fa sentire protetta”. Punti di vista, per l’appunto, culturali.
A leggere le principali guide di viaggio, finanche la Lonely Planet, bibbia indiscutibile dei backpackers, l’accesso ai principali siti internet internazionali è quasi un miraggio. Peccato che chi scrive, dopo aver controllato le ultime news sui quotidiani online italiani e internazionali grazie all’ottima connessione wifi di una semplice guest house, abbia inviato una mail, telefonato via Skype, comunicato tramite Whatsapp, cinguettato su Twitter, ricevuto notifiche su Instagram. Tutte applicazioni perfettamente funzionanti sui cellulari iraniani, senza particolari censure. Facebook è lento, teoricamente bloccato, ma alcuni programmi pirata piuttosto diffusi permettono facilmente di utilizzarlo.
Sangue – “Mio padre ha combattuto contro gli iracheni, è stato loro prigioniero per tre anni. È il mio eroe, come lo sono tutti coloro che hanno dato il sangue per la nostra patria. Migliaia di iraniani sono morti 20150810_130516nella guerra contro l’Iraq, sono i nostri martiri”. I muri delle città iraniane sono tappezzati di striscioni e manifesti che onorano i caduti nella guerra contro l’Iraq, un conflitto che ha causato quasi un milione di morti. Anche nel piccolo villaggio di Abyaneh, sulla porta delle pittoresche case di fango rosso, i ritratti sbiaditi dal sole dei morti in guerra stanno lì a ricordarti quanto accaduto trent’anni fa. È il culto dei martiri, pietra miliare dell’islam duodecimano. In principio fu Hosseyn, il terzo imam, che ucciso dai seguaci del califfato sulla piana di Karbala, nell’odierno Iraq, segnò forse definitivamente l’eterna divisione (fitna) tra sunniti e sciiti. Da allora, come durante l’ashura, la commemorazione del martirio di Hosseyn, per gli sciiti “ogni giorno può essere dedito al martirio”. E’ l’esempio imperituro di redenzione, il sacrificio massimo per la propria fede. Ecco perché un caduto in guerra diventa subito martire e l’acqua delle fontane di tutte le città iraniane si colora di rosso. Un eterno e inevitabile patto di sangue che trasforma in popolo una comunità di credenti.
Tricolori – Verde come il colore dei seguaci del primo imam Ali, cugino del profeta Maometto nonché marito della figlia Fatima. Bianco come simbolo di purezza. Rosso sangue, come emblema del sacrificio dei martiri. In pochissime nazioni si vedono così tante bandiere nazionali come in Iran, dove anche gli spartitraffico a volte sono tricolore. Così di tanto in tanto, ingenuamente, credi di essere a casa. Ma altrettanto banalmente ti ricordi che soltanto durante i mondiali di calcio vedi la tua bandiera campeggiare ovunque.
Qua in Iran invece c’è solo un tricolore assente: quello italiano. Nonostante l’Italia risulti il secondo partner commerciale europeo dopo la Germania, si trovano pochissimi prodotti di nostra produzione in giro. Mentre dal 2006 con le sanzioni Usa, a cui l’Ue si è subito allineata, l’Italia ha perso 1,2 miliardi di euro di export, altre nazioni come la Francia hanno trovato il modo ugualmente di incrementare gli interscambi commerciali con l’Iran. Per non parlare delle multinazionali americane, come Apple e Pepsi, che hanno aggirato e continuano ad eludere i veti imposti da Washington. La visita a Teheran lo scorso 4 agosto dei ministri Guidi e Gentiloni sembra aver riaperto una possibilità alle aziende italiane, ma le sanzioni non sono state ancora cancellate.
E se ad approfittarne sono soprattutto Russia e Cina, inizia a far capolino il sempre lungimirante Sol Levante, pronto a cogliere al volo le opportunità aperte dal recente accordo sul nucleare. Il Tehran Times due giorni fa plaudiva all’intesa con Tokyo annunciata dal nipponico Kyodo News: “Il governo giapponese è pronto a rispolverare un vecchio accordo petrolifero nella regione dell’Azadegan, nel sud dell’Iran”. Il governo di Rohani sarebbe insoddisfatto di un’analoga collaborazione targata Pechino. Il tulipano persiano e il ciliegio giapponese, entrambi simbolo dei caduti in battaglia, non sono più così distanti.
Eugenio Palazzini
Clicca qui per leggere la seconda parte del reportage

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2 comments

Alessandro 14 Agosto 2015 - 8:33

Sono stato in Iran ad Ottobre scorso e tutto ciò che descrive l’articolo è perfettamento vero; un popolo ed una cultura affascinante, sarà perchè gli sciiti sono molto più simili alla pietà cristiana rispetto ai sunniti; loro pur sempre mussulmani e miranti quindi alla conversione di tutti hanno un rispetto per i cristiani unico, andavo in giro con la croce al colle e mi hanno fatto entrare anche nei templi più sacri come a Shiraz (dove in teoria gli infedeli non potrebbero entrare). Ci tengono a dire che non sono arabi, che non sono terroristi (i terroristi sono sempre sunniti); è vero, amano il suono della lingua italiana (e sanno ben distinguerla da quella spagnola, quando mi è capitato che alcuni anglosassoni non ne riconoscessero la differanza, si vede che sono poeti di sangue), la Divina Commedia di Dante è uno dei libri più diffusi (con censura ovviamente del canto XX dell’inferno). Preferirei che in quella zona il potere politico lo avesse l’Iran piuttosto che l’Arabia, diciamo che meglio gli sciiti che i sunniti. Un popolo che paga assai caro la “didattura” dei nostri media occidentali, filoamericani, filosionisti, antirussi, ergo diffamazione estrema verso chi ha rapporti deboli con gli USA, chi non è filosionista e chi è alleato della Russia.

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Stefano Vaj 16 Agosto 2015 - 2:52

Quanto allo chador, spesso portato in posizione da coprire poco più della nuca di donne visibilmente appena uscite dal parucchiere, non lo trovo particolarmente più fastidioso della paranoia americana – ahimè, nell’ultimo decennio tracimata anche in europa – per il reggiseno e per l’oscuramento dei capezzoli femminili – cfr. la strettissima censura in vigore sino ad epoca recente su Facebook anche per le foto d’autore o per le mamme che allattano, http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&thold=-1&mode=flat&order=0&sid=5981

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