Tartus, 14 feb – Sul lungomare di Tartus una lieve pioggia comincia a bagnare la passeggiata, lontana una chiatta solitaria avanza lenta verso l’isola di Arwad, ultimo avamposto crociato a cadere nel 1302. Una processione di macchine e furgoni ci taglia la strada mentre camminiamo verso il vicino internet point, è accompagnata da canti e colpi cadenzati di mitra. Nessuno scontro a fuoco in corso, è un corteo che rende onore all’ennesimo figlio di questa città ucciso in battaglia da qualche parte in Siria, colpito a morte dalle armi turche in dotazione ai jihadisti. A Tartus la guerra non è mai arrivata, nessun edificio è stato distrutto da bombe e mortai. Eppure l’antica Tortosa, già base navale fenicia, ha pagato un prezzo di sangue altissimo. Un quinto dei suoi 90 mila abitanti è morto al fronte, disperso o ferito gravemente durante i combattimenti. E’ questa la città dei martiri, omaggiati da migliaia di manifesti che avvolgono i lampioni e segnano le facciate delle case in via di costruzione dall’inizio del conflitto. Scuole, ospedali, strade, qua vengono per lo più intitolati ai “più generosi e nobili al mondo”, per garantire loro l’eternità nel ricordo. Ragazzi appena ventenni che crepano ogni giorno al fronte per garantire un futuro ai ventenni che verranno. Le famiglie continuano a ricevere lo stipendio del martire e programmi appositi del governo siriano assistono i loro figli garantendo loro l’istruzione gratuita fino all’università.
Dalla città dove sorge la moschea dedicata alla Vergine Maria, a cui peraltro è riservata un’intera sura del Corano, e in cui le chiese suonano le campane per segnalare ai fedeli islamici la fine del Ramadan, a partire per combattere fianco a fianco contro i terroristi sono soldati musulmani e cristiani. Perché, fede a parte, ad unire il popolo qua è la Patria. “Non ci interessa l’appartenenza religiosa, noi siamo prima di ogni altra cosa Siriani”, ci dice Mohammed Gaber, comandante dei Falchi del Deserto, combattenti volontari che hanno da poco liberato la cittadina di Salma, vicino al confine turco, dove da anni si erano asserragliati i terroristi di al-Nusra. Sono parole che in Siria pronunciano tutti, anche imam e patriarchi. Un concetto che ci ribadisce pure il governatore di Tartus, già combattente nella regione di Idlib contro i terroristi affiliati ad al-Qaeda. “In occidente li chiamano ribelli moderati, in realtà sono barbari assassini che falsificano l’Islam diffondendo ideologie salafite e wahabite, orde di tagliagole provenienti da ogni dove, tutti finanziati dall’Arabia Saudita e dai Paesi del Golfo.” Il governatore dell’antica Tortosa, “la sposa della costa siriana”, non ha dubbi a riguardo: “Combattiamo anche per voi chi sa soltanto uccidere e sgozzare. Qua chiese e moschee si abbracciano da secoli ma qualcuno, per scopi puramente economici, vorrebbe cancellare questa armonia”.
Nella periferia sud di Tartus le facciate delle case sono tappezzate di manifesti di chi ha sacrificato la propria vita per la Siria, giovani che hanno scelto la prima linea. I più sono andati al fronte da volontari, esentati dal servizio di leva hanno deciso di non scappare oltre confine. Qua vivono infatti molti libanesi accolti a Tartus dal governo di Hafiz al-Assad trent’anni fa. Incontriamo la famiglia di Hassan, caduto a vent’anni nella riconquista del Krak dei Cavalieri, mirabile fortezza crociata a metà strada tra la costa e la città strategica di Homs, in cui si erano rintanati i terroristi di al-Nusra. Il suo sacrifico ha permesso all’esercito di Assad di issare la bandiera siriana sulle antiche mura del mastio crociato e alla famiglia di ricevere la cittadinanza siriana. Non è una mera ricompensa, è il sigillo nazionale assegnato a chi ha dato il proprio sangue per tracciare un solco tra la civiltà e la barbarie. Usciamo e a fatica le ultime luci del giorno illuminano la bandiera siriana appesa alla finestra del piccolo appartamento della famiglia di Hassan. Ha smesso di piovere. Malgrado tutto, in Siria la primavera non è lontana.
Da Tartus, Eugenio Palazzini Alberto Palladino