Home » L’Isis è in rotta. Perchè i soldati americani sono ancora in Siria?

L’Isis è in rotta. Perchè i soldati americani sono ancora in Siria?

by Mattia Pase
3 comments

Roma, 24 nov – Ora che le bande dello Stato Islamico battono in ritirata, dopo la vittoria dell’Esercito siriano a Deir Ezzor e la sua conseguente operazione per ripulire dalla presenza dei terroristi dell’Isis nelle ultime città rimaste in mano a questi ultimi lungo le rive dell’Eufrate, una domanda dovrebbe nascere spontanea: che cosa ci fanno, in Siria, i soldati statunitensi che hanno finanziato, addestrato, supportato e in alcuni casi affiancato sul campo le milizie curdo-arabe delle Syrian Democratic Forces? Ed è l’autorevole Washington Post a porsela, in un lungo articolo uscito tre giorni fa.

Lo scopo dichiarato della loro presenza era infatti quello di combattere contro l’Isis, che a dire il vero non ha sofferto gravi perdite dovute alle incursioni dell’aviazione americana, o alle operazioni militari dei loro alleati delle SDF, davanti alle quali gli uomini dell’autoproclamato califfo Al Baghdadi si sono volentieri ritirati, per dedicarsi piuttosto a una lotta spietata contro l’esercito regolare e le formazioni paramilitari fedeli ad Assad. Ma anche a prescindere dalla poca efficacia dell’intervento statunitense, questo era comunque in qualche modo giustificato dalla lotta all’estremismo jihadista.

Al momento, di sacche controllate dai suddetti jihadisti ne sono rimaste poche, e nessun analista serio reputa credibile una resurrezione dell’Isis, fatti salvi gli attentati che sicuramente continueranno a funestare il Medio Oriente e, presumibilmente, gli Stati europei in cui i terroristi faranno ritorno, avendo molti di loro passaporto belga, francese, britannico, eccetera. Forse, qualche gruppo fedele allo Stato Islamico riuscirà a riconquistare una cittadina o un fazzoletto di deserto, ma la folgorante conquista di mezza Siria e di un terzo dell’Iraq è consegnata più ai libri di storia che alle pagine di cronaca dei quotidiani. Per quale motivo, dunque, il Pentagono continua a tenere i suoi uomini in Siria (poche centinaia secondo le fonti ufficiali, diverse migliaia stando ad analisi più accurate), presenza di per sé illegale sotto il profilo del diritto internazionale, visto che non risulta alcun invito da parte del legittimo governo – come invece è accaduto nel caso delle truppe russe che poco più di due anni fa hanno iniziato a collaborare attivamente con Assad – né tanto meno qualche risoluzione dell’ONU ha mai autorizzato gli Stati Uniti a mettere piede sul suolo siriano?

La risposta, ovvia finché si vuole, ma che vale la pena di ribadire oggi che i vari specchietti per le allodole stanno andando in frantumi, è che gli Stati Uniti non hanno mai operato attivamente contro l’Isis, eccezion fatta per qualche bombardamento aereo dai risultati discutibili (e una recente inchiesta del New York Times ha dimostrato che le vittime civili sarebbero sostanzialmente 31 volte più numerose di quanto dichiarato dagli strateghi di Washington), e sono piuttosto intervenuti nello scacchiere siriano per supportare chiunque si opponesse al Regime di Damasco. Ci hanno provato con la cosiddetta “opposizione moderata” che ha dato vita al fantomatico Free Syrian Army, che ha collezionato disfatte militari in serie, ed è stato annichilito da un altro genere di opposizione, quella di stampo islamista, che di siriano aveva ben poco, a giudicare dalla nazionalità dei suoi uomini e dei suoi principali comandanti. Hanno provato, gli Stati Uniti, a supportare persino questi gruppi estremisti, delegando allo scopo alcune monarchie del Golfo (Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti), ma anche in questo caso, dopo alcuni successi, queste milizie sono state costrette sulla difensiva, e controllano ormai solo il governatorato di Idlib, combattendosi peraltro fra loro, ufficialmente per diverse interpretazioni della legge islamica, ma di fatto per una banale questione di spartizione mafiosa del territorio.

Forti dubbi sussistono persino sui rapporti fra USA e Isis, dubbi che sembrerebbero trovare conferma nel bombardamento aereo effettuato contro l’esercito siriano che difendeva dalla sconfitta e dalla barbarie l’enclave governativa di Deir Ezzor. L’ultima carta rimasta agli Stati Uniti era la minoranza curda, troppo piccola per rivendicare qualsivoglia forma di indipendenza e per questo restia a prendere iniziative contro Assad. Anzi, in alcuni casi, come nella battaglia per Aleppo, i Curdi hanno combattuto coordinandosi con le forze lealiste. Gli americani però hanno puntato su di loro, chiedendogli di accettare alcuni reparti arabi, e fornendo loro la sigla “Syrian Democratic Forces”, sigla alquanto inappropriata stando a quello che ha più volte scritto un esperto di Medio Oriente come il britannico Robert Fisk sull’Independent, il quale ha sottolineato come ci sia poco di siriano, pochissimo di democratico, e praticamente nulla di forte, se li si priva della copertura aerea dell’aviazione statunitense.

Sia quel che sia, le SDF sono riuscite a liberare il nordest del Paese dall’Isis, che non ha peraltro offerto, come riportato sopra, grande resistenza, e si trovano ora nella condizione di trattare con il governo di Damasco, ma con tre problemi fondamentali. In primo luogo, la spaccatura interna fra Arabi e Curdi, solo sopita dalla supervisione (e dai dollari?) di Washington. In seconda battuta dalla dura opposizione della Turchia, che di fatto considera la formazione come una proiezione siriana del PKK, irriducibile nemico di Ankara, visto che rivendica l’indipendenza del Kurdistan dalla Turchia. Infine, un rapporto piuttosto conflittuale con le altre frange ostili ad Assad, elemento che indebolisce le opzioni diplomatiche a disposizione dei Curdi siriani. Da Washington tirano dritto, come riportato nel già citato articolo del Post, con la ferma intenzione di proseguire nel supporto alle SDF, per avere voce in capitolo nella Siria di domani, allo scopo di evitare l’aumento dell’influenza iraniana e la creazione di un bastione russo sulle sponde del Mediterraneo.

E se dovesse andargli male anche con le SDF, gli Stati Uniti sembrano pronti a giocarsi il tutto per tutto, appoggiando l’iniziativa saudita volta a destabilizzare il Libano, nella speranza che Hezbollah – il movimento più rappresentativo della forte minoranza sciita del Paese dei Cedri – cada nella trappola e dia il via a una nuova guerra civile libanese. Come da consolidata tradizione, il fatto che un nuovo conflitto potrebbe portare ad altre centinaia di migliaia di morti, alla Casa Bianca non importa un fico secco.

Mattia Pase

You may also like

3 comments

Tony 24 Novembre 2017 - 4:33

….vi siete dimenticati degli Israeliani….. alleati degli emirati e..indovinate un po…. alleati dell’isis….

Reply
cenzino 24 Novembre 2017 - 6:07

Sono in attesa di ordini da Israele. Of course.

Reply
rino 25 Novembre 2017 - 8:39

Non ho titoli all’altezza del (scusi se mi sfugge il grado) Sig. Danilo Angiolini, Istruttore Difensivo di tecniche di difesa e sicurezza, ma ugualmente proverò ad esprimere la mia opinione dicendo: come si può essere di destra e parteggiare per chi non rispetta le regole internazionali come fanno i nasi lunghi (ex trotzkisti attuali neocon) che comandano in JewAmerica?

Reply

Commenta

Redazione

Chi Siamo

Il Primato Nazionale plurisettimanale online indipendente;

Newsletter

Iscriviti alla newsletter



© Copyright 2023 Il Primato Nazionale – Tutti i diritti riservati