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Libération si indigna per un Giappone fin troppo giapponese

by Carlomanno Adinolfi
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623811-japan-s-pm-abe-is-led-by-a-shinto-priest-as-he-visits-yasukuni-shrine-in-tokyoRoma, 3 mar – Dopo aver irritato i vicini e “rivali storici” coreani e cinesi e dopo aver ovviamente indispettito gli Stati Uniti, la politica di forza e autonomia e la diplomazia aggressiva di Shinzo Abe in Giappone (vedi qui, qui e qui) non poteva che irritare anche la sinistra democratica e benpensante. È proprio di questi giorni l’intervista del quotidiano Libération a Robert Dujarric, direttore degli studi sull’Asia dell’università Temple di Tokyo, che tenta di spiegare con delle formule piuttosto sempliciste e banali e soprattutto con indignazione questa “malattia” che ha portato i giapponesi a voler guardare con orgoglio alla propria nazione e alla propria storia, nonostante due democratiche bombe atomiche abbiano tentato di imporre il risultato opposto.

Dujarric inizia l’intervista spiegando ai lettori che in realtà la destra di Abe è al governo quasi per caso e solo per la congiuntura particolare che ha condannato la sinistra democratica che ha fallito il mandato tra il 2009 e il 2012, ma poi ci stupisce presentandoci il popolo giapponese come un popolo che pensa solamente a pensioni, economia e sanità e che delega ai politici avendo solo questi tre temi in testa. Il dogma marxista che semplifica la vita umana in termini di produzione ed economicismo quindi, secondo un luminare dell’università di Tokyo che si occupa degli studi sull’Asia, si applicherebbe anche al popolo dei kami, della reverenza devota all’Imperatore, al popolo che sa che, per ordine della dea Amaterasu, da Hirohito in poi il sovrano non è più divino ma che tuttora ritiene Meiji e i suoi precedenti degli dei che difendono la nazione. Lo stesso popolo che vediamo inchinarsi davanti agli altari domestici o che lascia panini, cibarie o bevande nei tempietti ai crocicchi delle strade per fare voti ad una divinità o pregare i propri antenati. Questo popolo, per Dujarric, penserebbe solamente in termini economicisti e materialisti. Sorvolando sul fatto che, anche accettando questa piuttosto singolare visione economicista del paese del Sol Levante, Shinzo Abe e il suo partito in poco più di un anno hanno ottenuto risultati straordinari proprio in campo economico, (vedi qui), Dujarric ci dice poi che in realtà le persone che pensano ciò che ha detto Abe sulla guerra nippo-coreana e su quella sino-giapponese sono assai poche, ma che si sentirebbero ora rinvigorite e confortate proprio dal fatto di avere al governo uno come Abe, nipote tra l’altro di un criminale di guerra come Nobusuke Kishi. Evidentemente lo stesso Dujarric l’estate è in vacanza dal suo ruolo di docente universitario e ogni 15 agosto non può vedere di persona le migliaia di giapponesi che si recano allo Yasakuni Jinja per onorare i caduti in guerra e tra essi anche i famigerati criminali condannati a morte nel processo di Tokyo.

L’intervista si chiude finalmente con la sentenza dall’alto e con la spiegazione del perché il Giappone sia così “arretrato nell’affrontare il proprio passato”: il motivo è che gli americani non hanno fatto come in Germania dove, grazie al processo di Norimberga, tutti i colpevoli sono stati giudicati e condannati. E dove grazie a una presenza militare durata decenni si è potuta effettuare una ri-educazione che ha spiegato al popolo tedesco quale fosse il modo corretto di guardare al proprio passato. Per Dujarric quindi due bombe atomiche sono state troppo poco come tentativo di educazione. Ma forse anche lui, troppo perso nei dogmi di produzione, plus valore e rieducazione sovietica, pur lavorando a Tokyo non è riuscito e non riuscirà mai a capire un popolo che ha ancora saldi i suoi legami con la propria terra, coi propri antenati, coi propri dei, con una storia e un etica fondate sui principi samurai che oggi affascinano noi occidentali ma che nel Sol Levante son da secoli un cardine che nessuno mette in discussione proprio perché sono una parte indistricabile dallo spirito di ogni giapponese.

Carlomanno Adinolfi

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