Roma, 11 gen – La coda del dragone continua a estendersi in Africa, dove ormai la Cina è il principale investitore. Nel classico stile di Pechino, senza fretta ma senza sosta, lo sfruttamento del territorio e delle risorse africane è però ben più “raffinato” e penetrante di quanto si possa pensare. Non c’è semplicemente l’interesse economico e strategico in ballo, non è neppure unicamente una questione di sfida internazionale alle altre potenze che sembrano impotenti di fronte alla capacità cinese di affondare continuamente colpi a suon di yuan.
A farsi sempre più largo è l’altra faccia di Pechino, quella che silenziosamente impone il suo “imperialismo” culturale. Per questo, ma anche per opportunità lavorative, il Kenya ha deciso di introdurre dal 2020 la lingua cinese nelle scuole. Il governo di Nairobi ha infatti stabilito che a partire dalla quarta elementare gli studenti kenioti dovranno imparare il mandarino, al fine di avere maggiori capacità di relazionarsi con gli imprenditori del dragone asiatico. Quanto abbia inciso direttamente Pechino in questa decisione non è dato sapere, ma si tratta comunque dell’ennesima dimostrazione che la Cina fa sul serio non soltanto dal punto di vista commerciale e finanziario.
L’esperimento del Kenya non è però una novità assoluta in Africa. L’Uganda ad esempio aveva già deciso di rendere il cinese obbligatorio nelle scuole superiori e ancor prima il Sudafrica lo aveva lanciato negli istituti pubblici, pur senza grandi risultati. Parafrasando Battiato, il giorno della fine non ti servirà l’inglese, ma il cinese visto mai.
Eugenio Palazzini
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