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Erdogan invade la Siria per schiacciare i curdi. A vantaggio di chi?

by Mattia Pase
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Roma, 23 gen – L’attacco turco contro il bastione curdo di Afrin, nel nordovest della Siria, che era da tempo nell’aria, è iniziato. Con una nota ironica – il nome dell’operazione che mira esplicitamente ad estirpare la presenza curda da quell’area è “Ramoscello d’ulivo” – e con un contorno di dubbi su chi abbia effettivamente dato a Erdogan l’ok per l’inizio dell’attacco.
La situazione è effettivamente molto ingarbugliata, per il semplice motivo che ognuna delle parti in causa ha da molto guadagnare dall’indebolimento e altrettanto da perdere dal rafforzamento dell’altra. Siccome è evidente che la Turchia, membro della Nato e al contempo pietra angolare della strategia russa nel medioriente, non si è mossa in modo totalmente autonomo, è importante capire quali siano i giochi di potere che si svolgono sullo scacchiere siriano, ora che l’Isis è ridotto ai minimi termini.
L’attacco turco ha sicuramente avuto il placet di Mosca, per due motivi fondamentali. Il primo è che fa capire ai Curdi che non possono contare sugli Stati Uniti, e che quindi devono rinunciare alle loro velleità indipendentistiche. In questo senso va letto il ritiro delle truppe russe presenti nel cantone di Afrin, poche ore prima dell’inizio delle operazioni e poche ore dopo uno scambio diplomatico fra gli emissari di Putin ed Erdogan. È ovvio che il ruolo giocato dagli Stati Uniti nel Kurdistan siriano, che si sarebbe concretizzato nella creazione di una milizia di 30.000 uomini al confine fra Siria e Turchia (di fatto l’iniziativa, propagandata da Pentagono e Casa Bianca, avrebbe dato vita a un’entità statale curda), non sia stato ben visto dalla Russia.
La seconda ragione per cui la Russia ha dato il via libera all’attacco turco è analoga alla prima, ma va letta da un prospettiva opposta. È un modo per svelare l’inconsistenza del bluff americano. Mostrare al mondo che l’alleato scelto da Washington è tranquillamente attaccabile è una grande vittoria russa, ottenuta peraltro senza sparare un solo colpo. Erdogan ha avuto, anche se c’è riluttanza nell’ammetterlo, un timido assenso da parte degli Americani, che probabilmente non potevano fare altro, e che hanno abbandonato i Curdi al loro destino, come peraltro già fatto negli anni Novanta in Iraq, dopo la prima Guerra del Golfo.
La conferma è arrivata attraverso la nota del Segretario di Stato Mattis, che si è premurato di sottolineare come i Turchi abbiano preventivamente avvisato la Casa Bianca dell’attacco, ed è presumibile dalle dichiarazioni del ministro degli Esteri Britannico (il Regno Unito sembra l’unico vero alleato rimasto fedele agli Stati Uniti) che ha definito l’opzione militare un diritto della Turchia per la sua stessa sicurezza. Il fatto che questa violi in modo palese il diritto internazionale, cui tante volte Londra si è appellata, è evidentemente un dettaglio trascurabile. L’Iran, principale potenza regionale, ha a sua volta dei vantaggi dall’operazione dell’esercito turco. I Curdi iracheni, che con il loro referendum indipendentista rischiavano di mettere in crisi Baghdad, tessera fondamentale del mosaico geopolitico persiano, sono infatti avvisati.
Resta da capire quale sia la posizione di Assad, che si vede invadere il territorio nazionale, e che ha in effetti commentato con estrema durezza l’iniziativa di Ankara, consentendo, a quanto pare, il transito delle milizie curde attraverso il territorio controllato dal governo, ma senza intervenire direttamente. Per Damasco, impegnata in questi giorni nell’assalto al governatorato di Idlib, ultimo bastione della ribellione islamista contro Assad, l’operazione dei Turchi può portare, se dovesse riuscire, i Curdi siriani al tavolo della trattativa con meno pretese. Se invece l’azione di Ankara dovesse rivelarsi un insuccesso militare, il governo siriano non dovrebbe più temere i condizionamenti turchi al processo di pace che disegnerà le sorti della Siria di domani.
A sostegno della prima opzione, un editoriale del Daily Sabah, il quotidiano di Istanbul che spesso – per non dire sempre – funge da cassa di risonanza delle intenzioni governative, chiarisce in modo inequivocabile che uno degli scopi dell’azione militare di Afrin è quello di preservare l’integrità territoriale della Siria. E se il nome dell’operazione, “Ramoscello d’ulivo”, invece di essere ironico, fosse un messaggio diretto a Damasco?
Mattia Pase

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