Roma, 28 nov – Fidel era già morto. Non solo e non tanto perché aveva lasciato il potere una prima volta nel 2006 e una seconda, definitiva, nel 2008. Fidel era già morto perché dopo aver incarnato un anelito rivoluzionario, qualunque cosa si pensi di esso, da anni ne rappresentava soltanto il santino custodito nei cuori infranti di una generazione spenta tra un borghese disincanto e una nostalgica malinconia. La prova del nove è stata la prima pagina di ieri del Manifesto, la notizia della morte di Castro relegata in fondo, sovrastata dall’articolo di apertura sulla manifestazione contro la violenza sulle donne. Il quotidiano che ha più osannato le gesta rivoluzionarie cubane, dedica a Fidel un misero fondo pagina. E’ la triste parabola di un’esaltazione esotica e forse nulla più. Di chi ha sventolato l’altrui bandiera sputando sulla propria, di chi ha glorificato la morte della propria patria gridando alla patria degli altri.
Eppure dal 1959 Cuba divide l’Occidente. Per molti è stato un modello alternativo al sistema capitalista, per altri semplicemente una dittatura comunista. I primi si sono divisi in due fazioni, da una parte i guevaristi che accusavano Castro di aver tradito gli ideali del Che, dall’altra i guevaristi che accusavano gli Usa di aver impedito a Cuba di realizzare fino in fondo il sogno rivoluzionario del Che. Il castrismo non c’è stato, faceva capolino unicamente tra i salamelecchi di Minà e le paciose narrazioni di Cacucci. Per tutti gli altri l’isola caraibica è stata, ed è, soltanto l’ultima stella decadente del firmamento socialista da non disdegnare come meta turistica perché il clima è invitante, il mare cristallino e il sesso a buon mercato. Una realtà che Pedro Gutiérrez implacabilmente fotografava nella “Trilogia sporca dell’Avana”.
Qui si ferma la superficialità analitica occidentale. Ma da qui si deve partire per comprendere perché non ci sarà nessuna svolta repentina. La verità è che a nessun attore internazionale interessa poi così tanto cosa ne sarà di Cuba. Per Mosca non è più un avamposto da sostenere, col contagocce, per garantirsi una spina nel fianco degli Stati Uniti. Per Washington non rappresenta più un pericolo, per quanto remoto, e resta al limite una piazza da occupare per il libero mercato e un qualsiasi punto elettorale da tirar fuori per assicurarsi il sostegno dei cubani di Miami. Certo un lento cambiamento ci sarà, a prescindere dalla fine dell’isolazionismo annunciata da Obama con l’entusiastico “todos somos americanos”. Uno slogan che per ora sta fruttando solo qualche migliaio di turisti americani che salgono sulle navi da crociera in Florida e sbarcano nell’isla bonita in bermuda. La realtà ci dice che l’embargo resta, Guantanamo pure e Trump medita di rivedere lo storico accordo con Cuba. Nient’altro, salvo mutamenti di scenari globali al momento imprevedibili. La fine del bloqueo, per il quale serve l’approvazione del congresso americano oggi a maggioranza repubblicana (sulla carta contraria alla rimozione dell’embargo) non è poi automaticamente augurabile per Cuba. Se da una parte L’Avana ne ha sempre chiesto la fine, dall’altra non è azzardato affermare che se l’isola caraibica è oggi quello che è, ovvero una nazione povera ma sovrana, e se il castrismo è durato così a lungo, è in parte dovuto anche alla chiusura statunitense.
Cuba adesso, come sempre e forse più di sempre, è a un bivio: scegliere se restare una nazione libera o se tornare ad essere un annesso americano tra sollazzi d’azzardo e bordelli. Perché qualunque cosa si pensi della rivoluzione cubana non si deve commettere l’errore di paragonare un’isola caraibica ad uno Stato europeo. Fidel Castro ha assicurato sicurezza, sanità e istruzione gratuita. Non è retorica, sono tre aspetti inconfutabili che non ne fanno per forza un mito da celebrare ma esigono per lo meno un sacrosanto silenzio da parte di chi al massimo è riuscito a tener pulita la tavoletta del cesso di casa propria. E soprattutto sono tre fondamentali necessità che mancano totalmente nelle vicine isole, da Haiti alla Giamaica. La rivoluzione c’è stata, qualunque cosa vogliate pensarne. Ora c’è un lento processo di cambiamento, per certi versi inevitabile. Starà alla nuova classe dirigente a L’Avana stabilire se ridestarsi cloaca o tener fede al credo di José Martì: “che importa se mi trafiggeranno la schiena, possiedo i miei versi che sono più forti del tuo pugnale”. Perché in fondo qualunque cosa accada, alla fine di tutto resterà solo da scegliere: o Patria o muerte.
Eugenio Palazzini
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