Tel Aviv, 23 mag. – Donald Trump e signora hanno salutato Gerusalemme e da Tel Aviv si sono imbarcati sul volo che li porterà a Roma, dove domattina incontreranno Papa Francesco. Questa mattina il presidente americano è andato a Betlemme, in Palestina, dove ha incontrato il presidente Mahmud Abbas, Abu Mazen.
La due giorni trumpiana nel cuore delle tre grandi religioni monoteiste, e nel cuore della madre di tutte le guerre, era carica di aspettative. Che sono state accolte solo a metà da chi si aspettava dei colpi di scena a favore dell’una o dell’altra parte in conflitto. Più che parlare di quanto ha detto Trump a israeliani e palestinesi, ci sembra più opportuno sottolineare cosa non ha detto. Mai nei discorsi di questi giorni ha pronunciato le parole “capitale” e “ambasciata”. Due termini, e soprattutto due concetti, su cui c’era grande attesa. Prima di tutto perché la visita ha segnato i 50 anni della guerra dei sei giorni, o guerra di Giugno, quella del 1967 quando Israele occupò definitivamente Gerusalemme Est e la Cisgiordania dando il via alla forsennata politica degli insediamenti in terra palestinese. E poi perché Israele nutriva grandi attese da parte degli Stati Uniti per vedere riconosciuta dal loro principale alleato Gerusalemme come capitale dello stato ebraico. Invece così non è stato.
Alla promessa fatta in campagna elettorale da Trump di portare l’ambasciata americana a Gerusalemme non è stato fanno cenno, almeno nei discorsi ufficiali e lo stesso dicasi per la questione della capitale, nodo attorno a cui ruota la situazione di stallo dei negoziati. Non ha parlato neppure degli insediamenti. E Trump non è nemmeno andato a Masada, la fortezza in mezzo al deserto che domina il Mar Morto, cuore del sionismo delle origini. Qui le reclute giurano fedeltà allo stato di Israele promettendo “Mai più Masada cadrà!”, in memoria del grande assedio riportato nei testi dello storico Giuseppe Flavio che ha raccontato le guerre giudaiche.
Al centro de discorsi di Trump, piuttosto, c’è stato l’Iran, l’altro grande nemico di Israele, e dei sauditi a cui aveva fatto visita prima di arrivare a Tel Aviv. E a differenza degli altri presidenti Trump ha abbracciato in toto la posizione israeliana nei confronti del nemico sciita, tranquillizzando Netanyahu e promettendogli che gli Usa non permetteranno all’Iran di avere armi atomiche. Di Iran ha parlato anche oggi, prima di lasciare Gerusalemme. Nel suo discorso di saluto, quello che avrebbe dovuto tenere a Masada ma che è saltato perché all’elicottero non è stato dato il permesso di atterrarvi per ragioni di rispetto dei reperti archeologici, Trump ha ribadito: “ “I leader dell’Iran chiedono la distruzione di Israele. Non succederà con Donald Trump. L’Iran non avrà armi nucleari”. Più chiaro di così: prima della pace con i palestinesi c’è da assicurarsi che non si faccia la pace con l’Iran.
Certo, in compenso Trump è stato il primo presidente americano a visitare la città Vecchia di Gerusalemme. I suoi predecessori vi si erano recati in visita o dopo aver lasciato la Casa Bianca o prima di arrivarci. Trump, da presidente invece, è andato in visita al Santo Sepolcro, e soprattutto a quello che comunemente si chiama Muro del Pianto. Vi ha pregato e ha infilato il biglietto con una preghiera. In testa la kippà, come d’uopo, che sul biondo spiccava particolarmente. Nera, di velluto, come quella di suo genero, del suo entourage e dei politici israeliani. Non una a caso, o una di quelle, bianche, in dotazione appena fuori i cancelli che portano al Muro. Ma nera e piccola: quella che indossano i sionisti. Poi è andato via voltando le spalle al muro, come hanno fatto sua moglie e sua figlia: una cosa che gli ebrei osservanti, per rispetto, non fanno.
Una visita quasi confessionale, dunque, tra chiari e scuri, che lo stesso Jerusalem Post ha definito “di nessuna sostanza”. E se Trump è stato accolto con grande attesa dagli israeliani, così non è stato da parte palestinese. A Gaza hanno bruciato le sue effigi e un pupazzo con la faccia e i capelli di Trump è stato fucilato da Hamas. E in Cisgiordania oggi era la giornata della rabbia, a sostegno dello sciopero della fame dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Altri due temi che Trump si è ben guardato dall’affrontare con il suo nuovo amico Abu Mazen. Così come si è ben guardato dal parlare della soluzione dei due stati.
Di seguito alcune foto del viaggio di Trump in Israele e Palestina