Roma 30 gen -La notizia è arrivata solo qualche settimana fa: l’indagine giudiziaria sul Blody Sunday, l’eccidio che 43 anni fa costò la vita a quattordici persone, è stata riaperta. Al lavoro sul caso ci sarà una squadra composta da dodici investigatori della Psni (Police service of Northern Ireland). Sarebbero una ventina i militari britannici a rischio processo: le accuse sono di omicidio, tentato omicidio e lesioni gravi.
Era il 30 gennaio del 1972 quando il I Battaglione del Reggimento Paracadutisti dell’esercito britannico sparò sulla folla manifestante di Derry, città dell’Irlanda del Nord. Una folla disarmata che manifestava per i diritti civili e per garantire basilari garanzie procedurali alle centinaia di nord irlandesi arrestati dagli inglesi, e che non avevano prospettive né di essere rilasciati né di essere rinviati a giudizio.
La manifestazione, organizzata dal Nicra (Northern Ireland Civil Rights Association), era solo una delle tante e continue mobilitazioni che in quegli anni si svolgevano in Irlanda del Nord in chiave anti inglese.
I morti furono 13, di cui molti minorenni, più un’altra persona che morì mesi dopo a causa delle ferite. I testimoni, tra cui il giornalista italiano Fulvio Grimaldi, sostennero che i manifestanti erano disarmati e che molti di loro furono colpiti alle spalle dai militari britannici.
In seguito a questi fatti il governo britannico condusse due inchieste. La prima fu condotta subito dopo l’accaduto. Il “Widgery Tribunal” prosciolse i soldati e il governo inglese da ogni responsabilità. La “Saville Inquiry” fu stabilita, invece, nel 1998 ma arrivò nelle mano del governo inglese solo nel 2010. David Cameron, primo ministro inglese appena eletto, commentò con queste parole : “Ciò che è successo il giorno di Bloody Sunday è stato ingiusto e ingiustificabile. È stato sbagliato”. A distanza di quasi 40 anni arrivò un piccolo mea culpa da parte inglese.
Comunque nei giorni seguenti al Bloody Sunday la campagna dell’IRA contro l’occupazione dell’Irlanda del Nord da parte della Gran Bretagna si fece più forte. Le adesioni e le simpatie verso il movimento repubblicano aumentarono a dismisura, tanto che il governo inglese decise di sciogliere il governo e il Parlamento locale per controllare direttamente il territorio nord irlandese. Ciò non fece altro che alimentare le tensioni tra i due schieramenti.
Ad oggi, a distanza di 43 anni, in Irlanda è attiva la Continuity Irish Republican Army (CIRA) nata nel 1986 dalla scissione del Sinn Fein, in seguito alla decisione del leader Gerry Adams di rinunciare all’astensionismo per partecipare alle elezioni sia in Irlanda del Nord sia nell’Eire. Così i capi storici dell’IRA, Ruoiri O’Bradaigh e Daith O’Connell, fondarono il Republican Sinn Fein di cui la CIRA divenne il braccio armato.Tuttora la CIRA è l’unico movimento irlandese che non ha mai dichiarato la cessazione del fuoco contro gli inglesi.
Nel 2009, infatti, dopo l’uccisione di un poliziotto a Craivagon e di due militari britannici (questi ultimi uccisi dalla Real IRA, il movimento fondato da Michael McKevitt, marito della sorella di Bobby Sands), nelle rivendicazioni si legge “fin quando ci sarà l’occupazione britannica questi attacchi continueranno”.
Ma oggi, invece, arrivano solo notizie dell’irrigidimento della repressione inglese nei confronti della CIRA e verso chi vuole un’Irlanda unita senza presenza britannica.
In un comunicato dell’8 gennaio, i prigionieri della CIRA nel carcere di Maghaberry chiedono che sia rispettato l’accordo del 2010, in base al quale le “strip searches”, le perquisizioni corporali, venissero almeno ammorbidite. Nel comunicato i detenuti presso il braccio Roe 3 lamentano la continua detenzione nel blocco punitivo pur senza l’infrazione delle regole del carcere.
Inoltre viene negata la detenzione come prigionieri politici e i detenuti repubblicani vengono tenuti in un regime di detenzione che non gli spetterebbe. Nel comunicato si legge : “Vorremmo sottolineare che c’è un precedente di conseguenze che hanno seguito la negazione dello status di prigioniero politico. Nel passato queste conseguenze hanno avuto un prezzo elevato per tutte le parti in gioco, ma quando si tratta della nostra identità di prigionieri politici, nessun prezzo è troppo alto”.
Federico Rapini