Washington, 1 apr – È finita la luna di miele tra il giornalismo “democratico” e Barack Obama? Da noi no, stiamo ancora all’assioma “nero=buono”, ma negli Usa l’insofferenza della stampa verso il presidente si fa ogni giorno più palpabile.
L’ultimo a protestare è il Washington Post, il giornale che scatenò il Watergate (che fu uno scandalo pilotato, ma che nell’immaginario democratico resta una medaglia al valore nella lotta per il controllo della politica da parte della società civile).
In un lungo articolo, il quotidiano della capitale ricostruisce episodio dopo episodio il percorso a ostacoli di alcuni reporter che, nella ricerca di informazioni su temi anche cruciali, hanno trovato chiuse le porte delle agenzie federali.
Questa la prassi usuale: “Il portavoce di un’agenzia – scrive il Wp – spesso di nomina politica, respinge le richieste di intervista, risponde in maniera parziale o quando è ormai troppo tardi per il giornalista”. Oppure, se l’intervista viene concessa, viene strettamente monitorata, con la presenza di un addetto stampa oppure chiedendo di avere in anticipo le domande via mail.
Si ricorda poi un sondaggio del 2012 secondo cui l’85% dei reporter concordava che “il pubblico non riceve tutta l’informazione di cui ha bisogno per via delle barriere imposte ai giornalisti” e si sottolinea come la stretta si sia fatta sempre più evidente proprio durante l’amministrazione Obama, a dispetto delle promesse -nel 2009- per un “livello di apertura senza precedenti”.
Tanto che la protesta è giunta fino ad Obama, con una lettera sottoscritta da 38 organizzazioni, cui il presidente non ha risposto. Al suo posto lo ha fatto il suo portavoce Josh Earnest che ha difeso a spada tratta l’operato del presidente e del governo: “La Casa Bianca e le agenzie federali sono molto più accessibili che in passato”, ha detto.
Roberto Derta
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