Durante il mese di settembre, il Pakistan si è distinto per il numero di attentati subiti dalla popolazione civile. Il bilancio sanguinario stima 188 morti, 436 feriti e 28 attacchi in solo 30 giorni: una media di circa un attentato al giorno. Oltre a chiedersi da chi siano o non siano stati rivendicati gli attentati , il quesito da porsi è “perché?”.
I maggiori eventi di questo genere che hanno riscosso una più forte indignazione nell’opinione pubblica internazionale sono quelli del 22 e del 28 settembre. Il primo è avvenuto nei pressi della chiesa protestante di Tutti i Santi a Khoati Gate, nella zona di Khyber Pakhtunkhwa, provocando la morte di 85 persone e il ferimento di 145: il Teherek-e-Taliban (Ttp), la cellula talebana pakistana al soldo di Al Qaeda, ne ha rivendicato l’accaduto. L’attacco del 28 settembre, per mezzo di un’autobomba , è avvenuto nei pressi del Quissa Khwani Bazaar, il mercato più frequentato della città di Peshawar, vicino a una stazione di polizia: i 200 kg di esplosivo hanno condannato a morte 42 persone e feritene 70.
Il mondo ha liquidato questi attacchi come attentati terroristici, ma la motivazione è probabilmente più profonda di quanto vogliano farci credere. Il presidente Hussain si dichiara pronto alla lotta al terrorismo, definendo gli ultimi eventi sanguinari come “atti barbarici”. Peshawar, Lahore e Karachi si sono sollevate in cori di protesta contro il fondamentalismo islamico. In realtà questa ondata di violenza si è scatenata per motivazioni politiche, che riguardano in maniera limitata questioni quali la tutela e messa in sicurezza delle minoranze, lotte religiose perpetrate da fondamentalismi di ogni sorta e fantasiosi scontri tra civiltà.
Ahmed Marwat, portavoce del Ttp, asserisce che questi attacchi siano una protesta contro la politica statunitense dei droni ed è proprio per questo motivo che il Ttp ha rivendicato solo quegli attacchi in cui sono stati coinvolti, oltre ai civili, militari e funzionari governativi.
Questi attentati non sono altro che il frutto della maldestra politica del primo ministro pakistano Nawaz Sharif, il quale nei mesi immediatamente precedenti a questa ondata di violenza nel paese, ha tentato di attuare una politica di avvicinamento al movimento talebano: il braccio destro del mullah Omar, il mullah Abdul Ghani Baradar, è stato scarcerato e, nel negoziato di sei punti che il governo ha sottoposto ai vertici taliban-pakistani del 9 settembre, si prevedeva un ritiro delle forze governative dalle aree di confine con l’Afghanistan – dove sono situati i maggiori centri di addestramento degli “studenti”- e il rilascio dei militanti.
Le responsabilità di quelle morti sono da attribuire dunque anche a scelte politiche opinabili e avventate di governi che si ammantano di essere paladini della lotta al terrorismo.
Ada Oppedisano