Roma, 3 apr – Già da qualche giorno diverse fonti segnalano le intense attività di personale militare cinese al confine con la Birmania. Il punto di raccolta dei militari cinesi sembra essere la cittadina di Jiegao sul fume Ruili, confine naturale tre la provincia dello Yunnan e lo Stato Shan.
Gli organi d’informazione dei gruppi in lotta hanno affermato che l’invio di soldati e mezzi è un chiaro segnale alla giunta golpista birmana da parte del gigante asiatico. Come conferma anche la TVBS di Taiwan, la macchina militare cinese sarebbe pronta ad intervenire per proteggere il gasdotto che dal golfo del bengala convoglia preziose risorse proprio nello Yunnan. Già a marzo le autorità di Pechino avevano intimato al regime birmano di adoperarsi maggiormente per proteggere il tracciato delle condotte. L’impianto è una doppia linea di tubazioni che va da Kyaukphyu nello stato di Rakhine, sul Golfo del Bengala, attraverso le regioni di Magwe e Mandalay e lo Stato Shan settentrionale. Per giungere fino alla Cina.
Pechino ha mantenuto sin dall’inizio una posizione di tutela nei confronti dei nuovi assetti birmani, definendo il golpe una mera questione di politica interna. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non può ignorare il manifestarsi crescente di un rinnovato sentimento anti cinese. Tanto nelle proteste urbane dei Bamar quanto nelle sollevazioni etniche sul confine. Il boicottaggio dei prodotti cinesi, il controllo degli spostamenti del suo personale civile e non, e la potenziale minaccia a colpire proprio lo strategico vettore di risorse, vanno ad unirsi alle proteste che già da febbraio scorso vedevano l’ambasciata cinese a Yangon come target quotidiano dei manifestanti.
Guerriglia ovunque in tutta la Birmania
Lunedì, la Brotherhood Alliance composta dal Myanmar National Democratic Alliance Army, il Ta’ang National Liberation Army e l’Arakan Army (AA) ha annunciato la sua rinnovata adesione alla guerriglia di liberazione nazionale. Proprio nelle ore in cui il conto dei morti dall’inizio del golpe superava quota 500. Il fattore interessante è la posizione strategica occupata dei tre eserciti, attestati sul confine cinese e nel nord dello stato Rakhine. Quello in cui tra 2016 e 2020 il regime birmano, con o senza Aung San Suu Kyi, ha dato luogo allo stermino dei Rohingya. Le tre formazioni armate possono ora mettere in scacco tanto gli approdi delle tubazioni cinesi quanto lo stesso confine con lo Yunnan.
Martedì scorso, come riportato dall’agenzia Anadolu, «la Rohingya Solidarity Organization (RSO) ha attaccato l’esercito birmano al mattino tra le 4.30 e le 7.00 sul 44-BP, provocando 22 vittime». L’attacco «portato da tre lati con l’impiego di mitragliatrici pesanti» ha impegnato gli oltre cento uomini della guarnigione per oltre due ore. Il gruppo ha dichiarato che «continuerà ad attaccare fino a quando non avranno ottenuto la libertà dell’Arakan e tutti i rifugiati Rohingya non saranno rientrati nella loro madrepatria».
Nello Stato dei Karen
Ad oriente, sul confine con la Thailandia, i ripetuti attacchi aerei hanno costretto migliaia di civili Karen ad attraversare il confine per rifugiarsi nella provincia di Mae Hong Son. Altri 2000 sarebbero sfollati nei distretti di Mae Sariang e Khun Yuam, secondo le dichiarazioni del governatore Sithichai Jindaluang.
Sette rifugiati Karen in gravi condizioni sono stati ricoverati in tre diversi ospedali. Il governo sta prendendo in considerazione l’idea di costruire un nuovo campo profughi. Sulla questione accoglienza, il primo ministro thailandese ha dichiarato che i rifugiati in fuga dal Myanmar potranno entrare in Thailandia per motivi umanitari. Alla domanda sui rapporti secondo cui ad alcuni profughi Karen sarebbe stato negato l’ingresso al confine, ha risposto che era necessario che le autorità imponessero requisiti per un ingresso regolamentato: «Se c’è una guerra, questo è un altro scenario. Nel caso in cui la situazione si aggravi, il governo metterà in atto misure per affrontare un afflusso». Il premier ha sottolineato il valore degli «anni di esperienza, con nove centri per rifugiati» che la Thailandia avrebbe acquisito nella gestione dei profughi in fuga dalla pulizia etnica birmana. La Thailandia ospita già circa 100mila rifugiati, per lo più Karen e Karenni.
Nel frattempo dal lato birmano la brutalità delle scorse settimane ha segnato un nuovo incredibile record. Nello Stato Karen, il 27 marzo, un bambino di cinque anni è morto durante i bombardamenti nel villaggio di Day Pu No. KNLA e KNDO, le forze di difesa nazionale Karen, hanno risposto agli attacchi liberando due avamposti. Gli stesi da cui negli anni passati erano partite le spedizioni di rastrellamento e di pulizia etnica. In un video girato durante le operazioni si vedono i soldati Karen assaltare le trincee birmane.
Una raccolta fondi per i kit d’emergenza
L’emergenza umanitaria è ormai un fatto assodato. In queste ore il dramma dei profughi dispersi nella giungla o ammassati lungo il confine thailandese, assume le proporzioni di una vera e propria catastrofe. L’organizzazione italiana di volontariato internazionale Solidarité Identités ha lanciato una raccolta fondi per comperare in loco kit di pronto soccorso da distribuire al personale medico karen che negli anni è stato formato nelle “cliniche della giungla”. Create e e sostenute in collaborazione con la onlus Popoli di Verona.
La questione del covid e la rigidissima politica di chiusura internazionale adottata dalla Thailandia rendono difficili gli interventi esterni. Quelli che, con più di due missioni all’anno di medici europei, hanno garantito l’assistenza sanitaria a migliaia di cittadini karen e la formazione di personale. Nonché la nascita di veri e propri villaggi per evitare che la massa di profughi sia costretta a vivere stipata negli angusti campi in Thailandia.
Alberto Palladino