Roma, 3 mag – Nell’odierno scenario di guerra, gli eserciti moderni di tutto il mondo sono dotati di strumenti tecnologici che possono salvare vite umane e, per converso, condurre vere e proprie azioni militari (pensiamo ai droni). Lo studio, la ricerca e la tecnologia sono in costante sviluppo, al fine di fornire informazioni, soluzioni tecniche e materiali sempre più performanti e specifici. Tutta questa evoluzione, indispensabile per garantire sempre più sicurezza ai soldati, si scontra con arcaici strumenti di guerriglia in grado di provocare seri danni. Alcuni di questi strumenti poc’anzi citati sono gli ordigni esplosivi improvvisati, in inglese Improvised Explosive Devices – IED.
In realtà, l’utilizzo di trappole (esplosive e non) ha origini antichissime. Già nell’antica Roma venivano costruite delle false buche armate con delle lance in posti ritenuti strategici. Col passare dei secoli queste tecniche di guerriglia si sono perfezionate e, dal ‘700, si verifica un utilizzo di materiale esplodente similare a tempi molto più recenti, in quanto le mine erano molto utilizzate durante gli assedi al fine di distruggere mura, cunicoli e postazioni nemiche. Spesso gli ordigni esplosivi erano posizionati ai bordi delle strade battute dal nemico, coperti con ghiaia e o schegge metalliche, per infliggere il maggior danno possibile. Per una loro produzione a livello industriale di mine si dovrà attendere la prima guerra mondiale.
Non è qui nostra intenzione narrare cronache antiche, bensì raccogliere la testimonianza di soldati che hanno visto con i propri occhi la realtà della guerra. I soldati in questione sono tre ex legionari italiani: Martino, Omar e Manuel, i quali hanno acconsentito ad una breve intervista sulla loro esperienza.
Cosa si intende per IED e dove si trovano in prevalenza?
Martino: decifrando la sigla, significa ordigno esplosivo improvvisato. Sostanzialmente si tratta di un ordigno confezionato spesso sul momento, utilizzando mezzi di fortuna, compreso il pentolame per direzionare la deflagrazione. Questi strumenti di offesa vengono generalmente utilizzati dai ribelli in contesti di guerriglia, parliamo quindi di persone non organizzate e non equipaggiate come un normale esercito. In territori come l’Afghanistan, che sono pieni di bombe inesplose e mine, è molto facile realizzare gli IED infatti i talebani sono molto veloci nel confezionare questi ordigni e nel piazzarli in posti ritenuti strategici.
Omar: per quello che riguarda l’improvvisazione nel realizzare questo tipo di ordigno artigianale, la fantasia non ha confini. Il materiale esplodente di fortuna è inserito in lattine, pentole, pacchetti di sigarette, insinuato sotto il manto stradale ecc. Questi ordigni possono essere innescati a pressione, a distanza, mediante un filo legato alla spoletta di una bomba per esempio, e l’altra estremità fissata in un altro punto. Gli IED possono essere sistemati nella carcassa di un animale morto, possono essere “attaccati” a cani addestrati o ad animali appositamente mandati nei pressi di un check point. Ci sono state esperienze, per l’appunto, in cui la bomba era stata inserita nel retto di una vacca, intenzionalmente mandata verso un presidio militare. Oppure come dicevo prima, l’esplosivo è stato messo nelle bisacce legate ad un cane appositamente addestrato. In episodi più tristi, l’esplosivo era portato dai bambini in pacchi regalo. Questi ordigni, utilizzati in guerriglia, si trovano principalmente in Afghanistan e Iraq. Parliamo di territori in cui chi combatte è quasi sempre “mimetizzato” tra la folla, vestito di abiti tradizionali o comunque non in divisa.
Come vengono confezionati gli IED?
Martino: come dicevo prima, vengono recuperati ordigni di fortuna, bombe inesplose, mine e qualsiasi altra cosa disponibile al momento, attività peraltro molto pericolosa. Nel tempo gli esplosivi risultano più instabili e quindi più delicati. Da questi materiali viene tolto l’esplosivo, viene fatto un detonatore, l’esplosivo è alle volte messo un una pentola, in una marmitta, o sotto il manto stradale magari con delle sfere d’acciaio, e quasi sempre azionato con un telefono cellulare. Le forze regolari nei territori di guerra spesso hanno veicoli schermati, al fine di interferie con i segnali inviati per attivare le bombe.
Omar: gli elementi essenziali di un IED sono esplosivo e detonatore, c’è addirittura chi ricava il materiale esplodente da fertilizzanti, composti chimici, bombe inesplose. Tutto varia dal contesto e dalla disponibilità di mezzi, ci sono IED che non sono altro che tubi con dentro esplosivo pressato. Come dicevo prima non c’è un prodotto standard, motivo per cui siamo in costante aggiornamento. In missione vengono fatte bonifiche stradali e abbiamo a disposizione gli artificieri che intervengono manualmente, o col robot.
Manuel: riallacciandomi a quanto detto da Omar, queste trappole talvolta possono essere realizzate anche senza l’utilizzo di materiale esplodente nel senso classico del termine. Possono essere realizzati con fertilizzanti e con una serie di composti chimici, il che può rendere ancora più fantasioso il confezionamento e l’occultamento nonché facilita il reperimento del materiale.
Quanto incidono gli IED, a livello di perdite, nel contesto di una missione?
Omar: non ho mai perso colleghi a causa di questi ordigni, ad altri miei commilitoni è capitato. È una cosa orribile, si può morire sul colpo, come si può perdere un arto. Incidenti del genere capitano.
Martino: ci sono perdite sicuramente, cosa che tra l’altro fa parte del mestiere, ci sono perdite ma nello stesso tempo non così tante come si pensa. Certo sono fatti gravissimi, che indignano l’opinione pubblica. Ma in rapporto a tutti i soldati impegnati in missione, fortunatamente le perdite non sono tante.
Manuel: personalmente non ho mai avuto a che fare con IED sia perché non ho mai avuto incidenti in tal senso, sia perché gli esplosivi non sono la mia specializzazione. Durante gli anni di servizio ho ottenuto altri tipi di brevetti. Tuttavia dei miei commilitoni sono passati col mezzo su uno IED ed hanno subito una conseguente imboscata ingaggiando un conflitto a fuoco. Quel giorno ci sono stati due feriti e un morto. Nei cinque anni le perdite sono state veramente poche, se parliamo di numeri; fin troppe se parliamo di uomini.
Riflessioni dal punto di vista psicologico?
Omar: è una botta che non dimentichi più, ti martella la mente per molto tempo. Per quanto addestramento tu possa avere, quel primo botto non lo dimentichi. Prevale un senso di impotenza, un totale disorientamento tra fumo, calore ed urla. Se tutto va bene, nessuno si è fatto male. Diversamente può esserci immediatamente un’altra esplosione come un’imboscata (evento raro), possono esserci dei feriti da soccorrere mantenendo determinati protocolli e vi posso garantire che non è facile in certi contesti.
Martino: questo varia da persona a persona, certamente quando sei in missione non hai paura di una fucilata, hai paura di saltare per aria. Questa paura ti sale dallo stomaco ogni giorno, ogni volta che esci, ogni strada che percorri. C’è chi non regge psicologicamente e chi affronta con coraggio e orgoglio questa situazione, c’è chi non vede l’ora di trovarsi nella mischia per qualche minuto di adrenalina. In ogni modo tutto questo non deve essere vissuto necessariamente come un trauma, diciamo ci viene inculcato come tale. Lo psicologo, le cure e tutte queste cose non hanno nulla a che vedere con la realtà. Agli spettatori di telegiornali e programmi televisivi viene inculcato come un qualcosa di alienante e terribile. Certo è terribile, ma anche tornare alla vita civile intrisa di falsità e ipocrisia è terribile. Non dormire, avere paura ad aprire una porta al lavoro, essere tesi mentre guidi. Su questo si apre un mondo a parte, ma dopotutto, stiamo parlando di IED e non di vita militare nel suo complesso.
Manuel: quando senti un botto è sempre uno shock a cui non sei abituato. Non sai da dove è partito e non sai dove cade. Quando devi aprire una porta, non sai se c’è una trappola esplosiva, non sai se dentro ci sono dei terroristi armati o magari imbottiti di esplosivo. A livello psicologico è dura quando capita ad un collega che, oltre ad essere un collega, è un amico ed una persona a cui si può tranquillamente affidare la propria vita. Certe immagini non ti accompagnano solo in missione, ti piombano davanti quando meno te l’aspetti, mentre stai per addormentarti o mentre sei a fare la spesa. E li vedi i colleghi feriti, gli scontri a fuoco, i rastrellamenti. Ognuno si libera dei propri “mostri” come può, c’è chi si prende un cane, chi va dallo psicologo, chi si dedica al volontariato, purtroppo c’è anche chi si rifugia in alcool e droghe. La vita civile non offre tante possibilità di recupero ed è sicuramente uno shock quando ci ritorni. Detto questo, anche se nessuno è preparato a certe cose, siamo stati tutti volontari.
Francesco Arcari