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Arabia Saudita alla disperazione mette in vendita il suo gioiello petrolifero

by Francesco Meneguzzo
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S Aramco

Saudi Aramco, la compagnia statale del petrolio saudita

Riad, 12 gen – La notizia delle ultime ore è che il principe ereditario dell’Arabia Saudita nonché attuale potentissimo ministro della difesa ed esponente dell’ala più radicale del wahabismo, il trentenne Mohamed Bin Salman, in un’intervista all’Economist si è dichiarato “entusiasta” dell’idea che sta circolando a Riad di mettere in vendita quote importante della Aramco – la società finora completamente nelle mani dello Stato, anzi della corona saudita, che incidentalmente controlla l’intera produzione petrolifera del regno (10 milioni di barili al giorno, oltre il 10% della produzione mondiale) doppiando la russa Rosneft (controllata dallo Stato anzi direttamente dai servizi segreti eredi del Kgb) e superando di molto giganti come Exxon-Mobil (quattro milioni di barili) e Chevron (2,5 milioni). La Ipo (offerta pubblica preliminare di acquisto) che potrebbe essere lanciata sulla Aramco segna una svolta nella storia della compagnia nazionalizzata decenni fa. Secondo le dichiarazioni del falco saudita e altre fonti dovrebbe rappresentare la volontà di introdurre elementi di libertà economica e aprirsi al mercato e ai capitali internazionali. In realtà rappresenta semplicemente la mossa della disperazione, una vera e propria trappola sia per gli investitori sia per i sudditi sauditi, il segnale che la casa regnante intende fare più cassa possibile e nella massima fretta, infine il tentativo estremo di coinvolgere quanti più grandi interessi possibile a difesa dei propri privilegi.

Per larga parte del pubblico italiano che la mattina dell’11 gennaio ha ascoltato Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia creatura di Romano Prodi e think-tank economico ed energetico del centro-sinistra, intervistato da Giovanni Minoli su Radio 24, tutto questo arriverà come un fulmine a ciel sereno. Non per coloro che sanno come il Tabarelli non ne abbia mai azzeccata una nemmeno per sbaglio nella materia di cui si crede erroneamente esperto, né tanto meno per il lettori di questo giornale. L’allievo di Prodi ha infatti argomentato con vana sicumera sulla presunta stabilità economica dell’Arabia Saudita, produttore mondiale chiave del petrolio, la cui storia recente di estrazione rivaleggia con la sola Russia, e che riposerebbe sul mastodontico volume di 260 miliardi di barili di riserve di petrolio, corrispondenti a 70 anni di ulteriore produzione ai ritmi correnti. Innanzi tutto, la stima delle riserve saudite è appunto soltanto una stima, in quanto i numeri reali costituiscono un segreto di stato. Ammesso, poi, che ammontino a tanto, rimane da domandarci quanta parte di esse sia realmente estraibile a costi convenienti, tenendo conto sia del sostenuto collasso dei prezzi del greggio sia della insostenibilità per l’economia mondiale di prezzi superiori a 60-70 dollari al barile. Perché mai, poi, se i sauditi perseguono una lotta senza quartiere all’espansione delle proprie quote di mercato e dichiarano che i loro costi di estrazione sono ancora molto bassi, non riescono a crescere da anni oltre la soglia dei 10 milioni di barili al giorno? Qualcosa non torna.

Il problema più grande che egli evidentemente non conosce, però, è che da molti mesi ormai i più grandi analisti internazionali, a partire dalla Deutsche Bank, hanno fissato a oltre 100 dollari al barile la soglia del prezzo dell’oro nero in grado di bilanciare le finanze saudite, affette da una gigantesca quanto inefficiente spesa pubblica a sostegno e sussidio di una popolazione in crescita inarrestabile, priva di altre risorse e in larga parte parassitaria. Come illustrammo a inizio settembre su queste colonne. Le conseguenze di quelle che allora parvero ad alcuni ardite ipotesi si sono poi rivelate più che corrette, con il deficit pubblico proiettato verso il 20% del Pil, il taglio drastico ai sussidi e l’adozione del diversivo universalmente – e non sempre con successo – utilizzato in questi casi: la guerra. L’interventismo saudita in Siria, Yemen e ora direttamente contro l’Iran ne sono ovvi corollari, come pure abbiamo argomentato di recente. D’altra parte, il capitolo della spesa inefficiente non può che essere anni luce distante dai radar dei difettosi pensatori della sinistra, dal momento che si tratta degli stessi alfieri della più scellerata di tutte le spese – quella per il sostegno all’invasione immigratoria dell’Europa. La lezione della tragedia dell’Unione Sovietica, sepolta sotto il peso insostenibile delle sue inefficienze, non pare essere stata d’insegnamento per nessuno.

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Mohamed Bin-Salman, principe ereditario saudita, con il presidente russo Vladimir Putin. E’ notorio l’odio reciproco tra due

Per tornare all’ipotesi di Ipo sull’Aramco, abbiamo scritto che essa è una trappola per tutti eccetto per gli oligarchi sauditi. Secondo il principe Mohamed Bin Salman e lo stesso Economist, l’Aramco varrebbe migliaia di miliardi (cioè, trilioni) di dollari. Tuttavia, mentre Exxon-Mobil vale circa 320 miliardi di dollari di capitalizzazione e Chevron 160 miliardi, Rosneft – che come scritto produce ancora di più – vale soltanto 35 miliardi. La differenza è che quest’ultima società è statale e come tale utilizzata in larga parte per scopi sociali e politici sia interni che internazionali: un uso legittimo ma estraneo alle logiche del mercato. Questo vale ancora di più per Aramco, i cui proventi sono impiegati a piene mani per sostenere la rete di protezione sociale della popolazione saudita, dalle scuole agli ospedali alle altre infrastrutture, nonché ovviamente per sostenere l’influenza saudita sui paesi vicini governati da maggioranze o minoranze sunnite e nel più vasto scacchiere internazionale. Un asset strategico, quindi, più che industriale e capitalistico.

L’ipotesi di cessione di quote importanti della Aramco, quindi, potrebbe non essere affatto un buon affare per gli incauti investitori, i cui ritorni rimarrebbero comunque appesi al filo del destino della petromonarchia oltre che della realtà dei dati secretati sulle riserve disponibili. Per la popolazione saudita, la perdita di una fetta rilevante dei profitti della mega-società petrolifera rappresenterebbe poi un verso e proprio shock in termini di dismissione dello stato sociale, per altro come accennato già ampiamente in corso e mascherato dietro le fanfare delle guerre condotte direttamente e per procura. Naturalmente, la reazione della minoranza sciita, che si trova a risiedere sopra i maggiori campi petroliferi delle province orientali del paese, rappresenta un’incognita difficilmente valutabile ma certamente molto preoccupante. Per gli estremisti wahabiti al comando, invece, l’occasione si presenta ghiotta sia per racimolare ulteriori immense ricchezze, sia per attirare alla causa saudita interessi – americani in primis ma anche europei – che dall’accordo sul nucleare iraniano alla graduale presa di coscienza del doppio gioco di Riad sull’Isis sono apparsi sempre meno inclini a sostenere il gioco al massacro dei Saud.

Francesco Meneguzzo

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1 commento

Gab 14 Gennaio 2016 - 10:42

Non dovrebbe però essere un male per noi, no?
Così come ci opponiamo alla vendita di quote di asset strategici o di “semplici” aziende italiane ad investitori e speculatori stranieri per evitare (oltre alle ripercussioni sul lavoro ed il know-how) la canalizzazione di importanti dividendi e risorse fuori dall’Italia… il fatto che l’Arabia Saudita venda quote di Aramco, porterà ad un suo impoverimento, abbassamento delle risorse indirizzabili su stato sociale ed esercito e, di conseguenza, a maggiori possibilità di far collassare questo abominio di Stato nelle sue componenti etnico-religiose regionali.

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