Latakia, 15 feb – Sulla strada che da Damasco corre verso la costa siriana il cartello che indica 220 chilometri da Palmira ci ricorda che la guerra non è finita e il cuore della millenaria civiltà siriana è ancora prigioniero di folli tagliagole. Nel deserto a est della valle dell’Oronte, il corso d’acqua che attraversa la provincia di Homs, l’Isis occupa ancora parte dei giacimenti di gas fondamentali per l’approvvigionamento di carburante necessario a tutta la Siria. Gli altri siti, riconquistati nei giorni scorsi dall’esercito di Assad, hanno subito profondi danni alle tubature causati dagli stessi jihadisti. Una strategia terroristica che non significa soltanto stragi di civili inermi, torture, saccheggiamenti e distruzioni di mirabili siti archeologici. Gli ultimi colpi di coda dei tagliagole prevedono l’avvelenamento delle fonti idriche e la distruzione di quelle energetiche. È una strategia omicida e suicida allo stesso tempo, che però colpisce anche le province meno coinvolte dal fuoco della guerra.
Così anche a Latakia fuori dai distributori di benzina le strade sono bloccate da interminabili code di macchine in attesa di rifornirsi del poco carburante a disposizione. “La nostra provincia è stata quasi interamente liberata, soltanto il 5% del territorio al confine con la Turchia è ancora in mano ai terroristi – ci dice il sindaco Ibrahim Khaddar Al Salam – Qua adesso accogliamo nelle scuole 20 mila studenti provenienti dalle zone della Siria occupate da questi barbari“. Nella roccaforte di Assad, dove il presidente siriano è nato, nessuno ha voltato le spalle alla Patria. Qua, come nella vicina Tartus, il numero di volontari di ogni età partiti per combattere i jihadisti, anche nelle zone più remote della Siria, è stato sensibilmente più alto che altrove. E allo stesso tempo Latakia ha accolto centinaia di migliaia di profughi interni, trasformandosi da cittadina di villeggiatura che soltanto sei anni fa contava poco più di 300 mila abitanti, in un centro abitato che sfiora il milione di persone.
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“Molti profughi sono tornati nelle loro case dopo che abbiamo riconquistato Homs, Hama e Aleppo – ci spiega il sindaco – ma accogliamo ancora circa 400 mila nostri concittadini che non attendono altro che di riprendere possesso delle proprie abitazioni nelle città dove ancora si combatte una guerra che stiamo vincendo grazie all’eroismo dei nostri martiri”. Il sindaco ha ricevuto la delegazione del Fronte europeo per la Siria e di Solid onlus, organizzazioni italiane che hanno raccolto e portato qua 15 tonnellate di aiuti umanitari. “Siete un grande esempio anche per i vostri governi – dice Al Salam – che purtroppo hanno imposto al nostro Paese un embargo criminale che ci impedisce di ricevere anche farmaci antitumorali e strumentazioni chirurgiche fondamentali per curare i feriti di guerra”. È questo il drammatico risultato prodotto dalla chiusura diplomatica, politica e commerciale voluta dagli Stati Uniti e perseguita supinamente dall’Unione Europea. “Paghiamo per non esserci piegati al terrorismo che combattiamo anche per salvare voi europei – ci dice Mouhamad Shretih, segretario cittadino del Ba’th primo partito di Siria – Io stesso ho subito un attentato e centinaia di nostri militanti hanno dato la vita al fronte, giovani studenti, professionisti affermati. Nessuno si è tirato indietro”. In arabo Ba’th significa risorgimento, resurrezione. E si lega oggi più che mai al destino del popolo siriano, che con il suo sacrificio sta portando la propria nazione ad una rinascita inimmaginabile fino a pochi mesi fa. “Mia moglie è tedesca, abbiamo due figli che proteggerei ad ogni costo – ci confida Shretih – Potevano fuggire in Germania, ma hanno voluto restare qua. Per essere un esempio di coraggio e patriottismo“.
di Eugenio Palazzini
Video e Foto Davide Di Stefano e Alberto Palladino